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16 maggio 1929 – Istituzione del premio Oscar. Karl Struss primo direttore della fotografia a vincerlo

di Antonietta Magda Laini

Karl Struss, direttore della fotografia  e fotografo statunitense, vinse il primo Oscar per la direzione della fotografia, insieme a Charles Rosher, per il film “Aurora” (Sunrise – A song of two humans) diretto da Friederich Wilhelm Murnau, figura di spicco dell’espressionismo tedesco, alla sua prima opera ad Hollywood. La protagonista, Janet  Gaynor, vinse l’Oscar come migliore attrice.  Il film, considerato un capolavoro e premiato come migliore produzione artistica, fu poco compreso dal grande pubblico.

Struss è divenuto fotografo professionista dopo aver studiato fotografia con Clarence H. White e ha fatto parte del gruppo promosso dal grande fotografo Alfred Stieglitz  “la Fotosecessione”.

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Ha conquistato sicuramente  uno spazio nella storia della fotografia del primo novecento ma ha speso gran parte della sua vita lavorando come direttore della fotografia a Hollywood.

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Le sue fotografie, definite “pittoriche” dal movimento nato per elevare il mezzo fotografico al livello della pittura e che, secondo l’estetica di fine ottocento favoriva l’espressione sulla rappresentazione, sono state pubblicate su qualificate riviste tra cui “Harper’s Bazaar” e “Vogue”: inventò, fra l’altro, la lente per l’arte pittorica.

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I suoi scatti, caratterizzati da una notevole densità dei neri, che tuttavia mantenevano dettagli leggibili e che corrispondevano all’idea di creare “togliendo” la luce e facendo dominare le ombre, furono pubblicati dal 1912 sulla rivista “Camera Work”.

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Le sue opere degli anni 10 del novecento avevano quale soggetto soprattutto le  nuove strutture di Manhattan, mentre le immagini successive mostravano le personalità di Hollywood e il paesaggio della California.

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E’ stato uno dei pochi Fotosecessionisti a continuare a fare fotografie pittoriche dopo la prima guerra mondiale.

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Dopo il 1918 Struss decise di tentare l’accesso all’industria cinematografica: come prima attività realizzò scatti di scena per Cecil B. De Mille e, in seguito, fu uno dei cameramen del film Ben-Hur.

Aurora” segna l’esordio di F. W. Murnau a Hollywood ma anche di Struss come direttore della fotografia; il film narra di rapporti umani in crisi, è un poema sull’abbandono e la riconquista che si conclude all’apparizione della luce sul far del giorno.

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I toni del film vanno dal tragico al sentimentale, passando addirittura, talvolta, per il comico.

Alla fotografia, sicuramente di tipo espressionista, si unisce un senso naturalistico delle immagini, con indizi, segni premonitori, elementi che portano a situazioni successive: da notare “le impronte appaiate nel fango dei due amanti che hanno già tramato il delitto”.

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Luci e ombre dell’Espressionismo tedesco, i primi piani tipici della scuola russa, il giocare su effetti di contrasto della scuola americana.

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In evidenza la forte contrapposizione fra un certo primitivismo delle immagini e tutte le tecniche immaginabili, con l’uso di ottiche, focali, piani di ripresa e luci, possibili; tutto con un lavoro estremamente complesso.

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Un fascio di luce a simulare l’alba evidenzia il nuovo linguaggio, la tecnica dell’uso della luce nel moderno; le mille luci metropolitane, in un novecento elettrico e veloce.

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In un accordo creativo, regista e direttore della fotografia, utilizzano campi lunghi, sovrimpressioni, primi piani audacissimi, trasparenti e giochi di montaggio e, novità per l’epoca, il lavoro sulla teoria dei contrasti (la città luminosa e la palude oscura).

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Struss sviluppò effetti luce particolari sperimentando una lampada, la “lupe light” che, in un riflettore su un braccio mobile posto sotto la telecamera, forniva una luce senza ombre.

In Aurora, film muto, sono pochi pure gli “intratitoli”, tutto si concentra sul dialogo prodotto dalle immagini.

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Struss diresse la fotografia anche nel film “Luci della ribalta” (Limelight) di Charlie Chaplin; ancora una volta le ombre dipingono la scena e, in particolare, sul palcoscenico, quando si spengono le luci, sull’ultima danza della giovane ballerina che viene restituita alla vita e all’arte.

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Da Emily Dickinson: “A tutti è dovuto il mattino, ad alcuni la notte, solo a pochi eletti la luce  dell’aurora”

Source:  http://www.storiadeifilm.it  –  https://quinlan.it

 

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La fotografia nel film “Un affare di famiglia – Shoplifters”

di Antonietta Magda Laini

Regia, sceneggiatura e montaggio Hirokazu Kore-Eda   Fotografia Ryuto Kondo

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Kore-Eda si avvale di Ryuto Kondo per la direzione della fotografia e, mantenendo regia, sceneggiatura e montaggio, ottiene un’ottima collaborazione e risultati utili al suo stile.

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La famiglia di Shoplifters, composta da un’anziana nonna, un uomo (operaio edile), due figlie adulte di cui una moglie dell’operaio, un bambino ed una bimba, la piccola Yuri trovata sola, abbandonata e maltrattata all’interno di un balcone posto a livello della strada, risulta essere un nucleo coeso e solidale.

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Vivono tutti in una minuscola abitazione che, una ripresa dall’alto, ci fa notare di architettura tradizionale giapponese, circondata da nuovi edifici in stile occidentale, nell’immensa periferia di Tokyo.

Il film è girato prevalentemente in interni; della metropoli viene mostrata solo una parte della squallida periferia.DSC01760_2 a

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Il gruppo appare come una normale famiglia ma nessuno dei componenti è legato agli altri da vincoli di parentela; sopravvivono di lavori part time, occasionali, piccoli espedienti e furtarelli: nella prima sequenza, in un supermercato (scena che sembra richiamare lo stile del film muto) le tecniche del “taccheggio” vengono tramandate dall’uomo al bambino con sguardi, cenni e piccole complicità.

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Kore-Eda e Ryuto Kondo riprendono questo mondo isolato, a suo modo felice e un po’ fuori dalla legalità, con lunghi piani fissi pieni di oggetti raccolti e ammassati in casa alla rinfusa che, tuttavia, non provocano un senso di soffocamento o di oppressione anche in virtù di ambienti comunque ricchi di colori caldi.

Vediamo i protagonisti nel tempo trascorso nell’abitazione fra riti, sorrisi, scambio di battute e piccole effusioni: mangiano, scherzano e ragionano sulla giornata

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La cinepresa tenuta ferma in bassa posizione produce l’effetto di maggior partecipazione dello spettatore alla situazione e permette particolare attenzione a tutti i piccoli eventi che si svolgono davanti ai suoi occhi.

Le riprese fisse consentono di apprezzare la capacità di raccontare per immagini

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In esterno il quadro familiare viene ricomposto e ripreso mentre, dalla porta dell’abitazione, guarda i fuochi d’artificio e quando esulta sul bagnasciuga di una spiaggia.

Nella seconda parte del film luce e colore scompaiono, i personaggi vengono isolati, le inquadrature risultano prive di ogni elemento decorativo. Sono svelati i rapporti reali: primi piani frontali fissi per gli interrogatori dove l’obiettivo stringe con lentissimi movimenti sui volti.

Ed ecco, infine, la piccola Yuri (ritornata nella “vera” famiglia) inquadrata sola all’interno dello stesso balcone dove era stata trovata, guardare fuori come da una prigione.DSC01771 a

 

Non si può non pensare al grande regista Ozu per l’attenzione alla forma, la padronanza nella narrazione delle piccole cose e dei piccoli gesti.

 

Source: https://www.comingsoon.ithttps://www.cineforum.ithttps://www.mymovies.it

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La fotografia di Ben Davis nel film “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”

di Antonietta Magda Laini

Produzione USA/UK 2017   Regia Martin McDonagh – Fotografia Ben Davis

Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2017 e premiato per la migliore sceneggiatura. Oscar agli attori Frances  McDormand  come migliore attrice drammatica e Sam Rockwell come migliore attore non protagonista.  

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Lo scenario sembra quello di un western moderno abilmente  intrecciato con una commedia nera. Si è trasportati nel microcosmo della provincia americana (il Midwest  al centro degli States) spesso teatro di violenza gratuita e caratterizzato da depressione economica, solitudine,  alienazione, razzismo e omofobia.

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Le prime inquadrature mostrano una campagna nebbiosa all’alba, colori freddi che accentuano il disfacimento di alcune strutture pubblicitarie, collocate ai margini di una lunga strada e proposte in affitto: una vettura si ferma e poi riparte verso la cittadina.

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Tre cartelloni, nelle vicinanze del paese, che riprenderanno vita con tre manifesti rosso sgargiante che recano scritte accusatorie nei confronti della polizia locale e, in particolare, dello sceriffo Willoughby e che causeranno reazioni diverse, anche estreme, nella comunità. Mildred Hayes (Frances McDormand), figura dotata di grande determinazione,  con quei manifesti, inizia una guerra contro le forze dell’ordine  che nulla hanno fatto per risolvere l’omicidio di sua figlia.

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I manifesti compaiono in una assolata giornata di luce non viva ma che, leggermente sottoesposta, risulta cupa e malinconica come a sottintendere una minaccia: un cielo velato e triste, seppur con la presenza del sole, che persisterà per l’intero film. Un solo momento nell’arco dei 115 minuti la luce si farà più viva, l’esposizione più luminosa, quasi a proporre una tregua, con la visione di un elemento di pace (una cerva).

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Cupi anche gli interni di pub, case, locali, negozi: nel paesaggio urbano si colgono angoli spesso squallidi e degradati. 

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L’intreccio del film gioca con l’assurdo e il paradossale proponendo ottimi primi piani, quali quelli di scontro fra una madre ferita nel più profondo dell’anima e il poliziotto razzista: contrapposizioni come fra animali che si fronteggiano.

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Buon gusto nelle inquadrature prive di inutili ghirigori estetici e retorici: si colgono espressioni dure e stanche dei protagonisti e tutte le sfumature dettate dal loro carattere.

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Le immagini si presentano ruvide, collegate ad avvenimenti che, inesorabilmente, spiazzano il giudizio dello spettatore, i personaggi risultano ambigui.

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Il piano sequenza dietro le spalle del vicesceriffo (Sam Rockwell) che, ubriaco e violento, sale le scale della società che affitta manifesti e targhe spaccando ogni cosa sul suo percorso e gettando il giovane gestore dalla finestra è, probabilmente, una delle scene più intense e potenti.

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Mildred e il vicesceriffo finiscono per compiere un viaggio verso l’Idaho nel corso del  quale sembrano riflettere sugli avvenimenti trascorsi, forse con la speranza, che tuttavia appare vana, di risolvere i loro problemi; emerge un’ironia amara mista a sentimenti di rabbia, solo in parte espressa, che testimonia la loro tragica esistenza.

Le diverse inquadrature dei visi evidenziano le loro perplessità e l’assurdità della situazione; la vena involontariamente comica che ne deriva non riesce, comunque, a mascherare la desolazione dei due personaggi.

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 Ultima annotazione (che nulla ha a che vedere con la fotografia del film): per l’aria da cowboy che “mai arretra”, Frances MacDormand (Mildred) si è ispirata alla celebre camminata di John Wayne.

 Ben Davis, direttore della fotografia britannico, ha collaborato con Martin MacDonagh anche in “7 psicopatici” e “In Bruges”

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La fotografia di Bill Pope nel film “Baby Driver Il genio della fuga”

di Antonietta Magda Laini

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Film del 2017 –  Regno Unito – USA

Direttore della fotografia lo statunitense Bill Pope. Sceneggiato e diretto dal britannico Edgard Wright. Interprete principale Ansel Elgort

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Musical senza la struttura del musical, come una commistione di generi, ispirato ai “gangster movies degli anni 30” quasi tecnicamente perfetto con una direzione della fotografia che cura e accompagna con precisione ogni singola immagine.

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Si tratta di cinema artigianale e, nel contempo, spettacolare di alto livello, con ottimi primi piani e un’efficace fotografia di interni .

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E’ la musica che scandisce il tempo del film e stabilisce le inquadrature creando un punto di forza nel rapporto fra sé stessa e le immagini: un’esplosione di note pop e rock (Simon e Garfunkel, Queen, Beach Boys, The Jon Spencer Blues Explosion con il brano “Bellbottoms”, Commodores, Jonathan Richman, Barry White e tanti altri).

Il protagonista soffre di una forma di acufene causata da un incidente avuto da piccolo e, per contrastarla, utilizza cuffie che non toglie mai.

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Baby è un asso del volante (guida veloce e spericolata) al soldo di un boss che per sanare un debito  lo costringe a fare da autista nelle rapine.

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La musica, quindi, assecondando la successione delle immagini, detta il ritmo dei suoi pensieri e delle sue azioni, gli permette di controllare il mondo esterno, rappresentando l’unica alternativa ad una realtà che non saprebbe come sostenere.

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Lo “stato d’animo” del film viene offerto da un piano sequenza iniziale che segue il personaggio di Baby dalla strada al quartier generale del suo capo: una lunga ripresa tecnicamente perfetta e inquadrature d’effetto che introducono nel mondo del protagonista.

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Gran parte delle soluzioni dovute alle inquadrature e al montaggio seguono la costruzione musicale dei brani, favorendo la loro cadenza armoniosa: la musica diviene, così, non solo commento ma vera protagonista della catena di eventi.

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Troviamo sgommate, stridii, tagli sulla leva del cambio e sul volante, fughe contromano, turbinio di colori primari, assoli di chitarra e coreografie dove le vetture si trasformano in ballerine sull’asfalto. Movimenti studiati dagli stunt e fermati da una fotografia del dettaglio.

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Il film, come costruzione della struttura visiva, si presenta fluido, in movimento, con ritmo del linguaggio filmico che non utilizza soluzioni da post-produzione: effetti speciali pochi e molto cinema privo dell’immaginario del digitale.

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Bill Pope ha collaborato in diverse occasioni con il regista Sam Raimi  ed ha curato la fotografia della trilogia di Matrix dei fratelli Wachowski.

 

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La fotografia di Brian Tufano nel film “Billy Elliot”

di Antonietta Magda Laini

Vi ricordate di Billy Elliot? Film del 2000, ispirato alla storia vera del ballerino Philip Mosley.

diretto da STEPHEN DALDRY

direttore della fotografia BRIAN TUFANO

Regno Unito, 1984. L’ambientazione del film è quella dello sciopero dei minatori inglesi a causa della chiusura delle miniere per i provvedimenti presi dal primo ministro Margareth Thatcher.

Film estremamente delicato e impostato con una certa ricercatezza nella messa in scena: la costruzione scenografica crea lo spunto per la composizione di inquadrature particolarmente efficaci, in  cui si manifestano e contrappongono le diverse emozioni del protagonista.

Billy, un ragazzo di 11 anni che ai guantoni da pugile (voluti dal padre) preferisce le scarpette da ballerino classico nel momento in cui scopre il suo grande desiderio di ballare, viene ripreso nei tentativi di approccio alla sua scoperta, all’inizio un po’ impacciati poi via via più determinati, sostenuti dalle riprese all’interno della palestra con un trionfo di bianchi e azzurri in contrasto con la luce calda emanata dal parquet.  Primi piani e piani americani validissimi supportano le sue espressioni perplesse, le alterne manifestazioni di gioia e rabbia.

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“Che sensazioni hai quando danzi?” “Non lo so, una bella sensazione. Dopo che ho iniziato dimentico tutto ed è come se sparissi. Sento che tutto il corpo cambia ed è come se dentro avessi un fuoco, è come se volassi. Sono un uccello, sono elettricità……………”

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Una delle sequenze principali del film ci mostra le immagini dello sciopero dei minatori (fra i quali padre e fratello del protagonista) caratterizzate da luci fredde in tutte le sequenze  degli scontri fra manifestanti e polizia, alternate ai potenti passi di danza di Billy.  La fotografia evidenzia quindi questo doppio binario narrativo e stilistico: il realismo freddo delle lotte operaie e degli scontri  (domina il grigio azzurro) e l’esuberanza di Billy (come nei classici musical americani) che corre ballando freneticamente per strade, vicoli e cortili della città.

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Le inquadrature, i movimenti della cinepresa con la scelta degli angoli di ripresa, l’uso efficace dei piani inclinati, uniti al contesto in cui si muove il ragazzo – strade in salita e discesa riprese con un potente teleobiettivo, fila di squallide case popolari a schiera dai mattoni rossi – permettono di dare maggiore forza ai vitali, in alcuni momenti rabbiosi, sfrenati ma anche armoniosi passi di danza di Billy.

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Ed è in questa alternanza di inquadrature, lo sciopero e la danza, che si sviluppano le immagini più forti del film; la leggerezza, il ritmo, l’agilità del corpo del ragazzo esprimono il suo stato d’animo e tutti i contrasti che convivono dentro di lui.

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Scatto finale la spettacolare entrata in scena di Billy, ormai adulto, splendido protagonista di un “Lago dei cigni”.

Brian Tufano.  Tra i suoi film come direttore della fotografia ricordiamo: Trainspotting (1996) – Piccoli omicidi  tra amici (1995)  –  Quadrophenia (1979)  –  On the high road (1973) – East is East (1999).

 

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Il film “Manchester by the sea” direttore della fotografia Jody Lee Lipes

di Antonietta Magda Laini

Manchester by the sea, il cui protagonista Casey Affleck ha vinto l’Oscar come migliore attore, si può definire il film del “disgelo”: si tratta di una ibernazione emotiva che, con lo svolgersi degli avvenimenti, sembra trovare una soluzione.

E’ anche uno dei migliori film passati al Sundance Film Festival del 2016. Si svolge in una cittadina della costa del nord-est degli Stati Uniti.

La fotografia di Jody Lee Lipes si rivela veramente interessante sostenendo l’equilibrio del film.

Lipes alterna due tipi di luce: il giorno è quasi sempre grigio e nuvoloso (luce che sembra preferire) e la notte appare stellata.

Con tutti i toni di grigio utilizzati, mare e cielo si mescolano e specialmente il particolare grigio-verde del mare confonde e rende immobile anche il ricordo.

Le case della cittadina non mostrano ombre e tutto si percepisce come privo di suoni, fisso e congelato, a parte, in alcuni momenti, l’accompagnamento di musiche di Handel e Albinoni.

La struttura di alternanza fra passato e presente costruita dal regista e anche sceneggiatore Kenneth Lonergan, senza mai sconfinare nello schematico,  fa comprendere la ragione della fissità emotiva del protagonista e viene ben interpretata dalle immagini che, a loro volta, lo isolano quasi emarginandolo all’interno delle inquadrature.

Lo stesso isolamento, sempre all’interno delle inquadrature, vale anche per il coprotagonista.

Va sottolineato come l’efficace collaborazione tra fotografia e regia abbia trasformato i traumi, i silenzi, le difficoltà dei sentimenti in immagini precise, valide, preziose che “parlano”, e si esprimono, dimostrando come anche senza l’uso della parola si possano raccontare non solo i fatti ma anche le emozioni.

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