Una proposta terminologica di Carlo Delli. Terza parte

La foto di copertina “Tre giovani ghepardi – Masai Mara” è di Carlo Delli.

Senza fotografia ci sarebbe un’altra storia dell’umanità così come nessuno di noi sarebbe lo stesso senza la fotografia. Pochi esempi sui miliardi possibili. Tre sul piano generale, molto noti.
Uno: la Security Farm Administration degli Stati Uniti produsse una impressionante documentazione fotografica sulle durissime condizioni di lavoro nel paese dalla metà degli trenta del novecento, compreso lo sfruttamento minorile, e queste foto indussero il Congresso a modificare la legislazione e migliorare così la vita di milioni di persone.
Due: pensate cosa ha voluto dire in termini di percezione dell’accaduto, vedere le fotografie delle cataste di cadaveri nei campi di Auschwitz, e pensate se non ci fosse stata nessuna documentazione fotografica.
Tre: nel 1968 in casa cominciai a sentir parlare di un dramma che si svolgeva in Africa e che divenne sùbito un modo di dire generale: il Biafra; quei bambini scheletriti che morivano di fame ci colpirono profondamente perché li vedevamo nelle prime foto del genere, e nessuna descrizione a parole avrebbe potuto nemmeno lontanamente avere quello stesso effetto.
Poi un esempio sul piano personale: alcune fotografie di mia figlia piccola mi fanno emozionare profondamente, tanto che mi pare di essere lì a quel tempo e a volte guardandole sento l’odore di mia figlia a quell’età! Credo che nemmeno il più bel ritratto che io avessi fatto mi darebbe le stesse sensazioni.
Ma perché il Congresso cambiò la legislazione sul lavoro? Perché le foto dei campi di concentramento hanno cambiato la percezione della guerra? Perché la tragedia del Biafra diventò un modo di dire? Perché le foto di mia figlia mi danno un’emozione così intense? Tutto per il medesimo motivo: quelle immagini rappresentano visivamente la realtà! Quegli orrori o quelle gioie esistevano realmente! Hanno impressionato materialmente la pellicola e per questo impressionano la nostra mente e il nostro animo!

E si ritorna alla fotografia indice di realtà, che è la sua peculiarità, la sua essenza. Potrei continuare all’infinito, aggiungo che con l’indispensabile aiuto della fotografia si è progrediti in ogni campo della scienza, dalla comprensione dell’Universo macroscopico alla fisica subatomica, dalla biologia alla medicina.
Finisco questo paragrafo sottolineando la differenza tra fotografia e altre forme artistiche di linguaggio, con le parole del prof. Massimo Mussini: “La fotografia non contraffatta ha un fascino che nessuna opera d’arte può eguagliare, ed è quello della rievocazione. Ciò che guardo è esistito. L’immagine rielaborata in camera oscura, oppure ricostruita elettronicamente, entra a fare parte di un altro mondo, quello dell’immaginazione … e in questo secondo ambito, la fotografia perde gran parte della sua peculiarità…”

In definitiva, storicamente e fattivamente, “fotografia” ha un suo peculiare significato; per me è una parola quasi sacra, e non voglio pronunciarla davanti a immagini che fotografie non sono più.

Ci sono sempre stati molti modi di “alterare” il risultato fotografico nel momento stesso dello scatto, ad esempio usando filtri, esagerando l’esposizione, muovendo la fotocamera, e in mille altri modi; c’è poi il vasto tema delle situazioni preparate ad hoc, cioè delle messe in scena; ma mi concentro in questa sede sulle alterazioni fatte in una fase successiva allo scatto.
Come chiamare un’immagine di derivazione fotografica, ma successivamente alterata? Sento dire “immagine fotografica”, ma “immagine “ è troppo generico, e la fotografia stessa è comunque una immagine. Ecco quindi una proposta terminologica: oggi per le modifiche successive allo scatto si parla spesso di post-produzione, e allora per le fotografie poi alterate credo che possiamo efficacemente usare l’espressione “IMMAGINE FOTOPRODOTTA”, contratta magari in “fotoprodotto” se il contesto lo permette. * appendice 3 – elettronografia

Premesso con fermezza che fotografia e immagine fotoprodotta hanno ambedue pari dignità, credo sia comunque molto importante distinguerle, anche verbalmente. E pongo per questo due domande.
La prima: è facile distinguerle in pratica? Sarà facilissimo se l’intenzione dell’Autore è quello di palesare l’alterazione o, pur non volendolo palesare, non è però bravo a usare i programmi di fotoritocco e si fa scoprire. Sarà però impossibile distinguerle se l’Autore ci vuole imbrogliare ed è un bravo ritoccatore (in questo caso potremmo anche dire taroccatore): senza la sua ammissione o circostanze terze noi rimaniamo inesorabilmente imbrogliati. Questo è un problema primario nella civiltà delle immagini: nella stragrande maggioranza dei casi non potremo avere certezze, prendiamone atto e stiamo in guardia. È proprio in quest’ottica che Salgado ha recentemente affermato con ragione che la fotografia è morta, quasi sempre infatti non abbiamo la minima possibilità di sapere se quello che vediamo sia un’immagine fotoprodotta o una fotografia.
Ci sono però anche possibilità positive: tutti i casi in cui il giudizio è aperto, i casi cioè in cui l’Autore, pur dichiarando le modifiche, può sentirsi ancora dentro i limiti della fotografia mentre per altre persone li ha superati. Questo è lo stimolante campo del confronto: conoscendo prima la differenza teorica, si può poi discutere la pratica con cognizione di causa, guidati dalla nostre sensibilità, cultura ed esperienze personali.

La seconda domanda: è utile prendere atto della loro diversità?
Si entra ancor più nelle preferenze personali, potete infatti dire di no. Secondo me invece sapere se siamo di fronte ad una fotografia o un’immagine fotoprodotta è molto importante.
Abbiamo già detto che se il fotografo si esprime mantenendo il rapporto indicale di rappresentazione della realtà visiva, pur usando comunque tutte le possibilità che il linguaggio fotografico gli permette, avremo una fotografia, che è un documento ma potrà avere in certi casi anche un valore narrativo o addirittura creativo.
Ma cosa ci fa presente una fotografia? Ci mostra intanto la realtà visiva che lo stesso fotografo ha colto e intendeva mostrarci. Poi, tramite questa, ci presenta poi l’idea che il fotografo voleva trasmetterci. Ma rappresenta in più tutto ciò che, pur essendo davanti all’obiettivo, il fotografo non ha guardato o non ha visto, ma che la superficie fotosensibile ha registrato! Mi rifaccio qui a ciò che Franco Vaccari chiama forse con termine improprio ma efficacissimo ”inconscio tecnologico” del mezzo tecnico e alla sua autonoma registrazione della realtà visiva. La fotografia rappresenta almeno tutto questo.
Cosa ci rende presente invece l’immagine fotoprodotta? Ci rende soprattutto – se non solamente – l’idea dell’Autore. Se rappresenta anche qualcos’altro è solo nei residui di fotografia rimasti. Sono un fotografo di Natura e vi porto questo esempio credo molto significativo: una fotografia di Natura rappresenta, oltre la mia idea, l’Energia Creatrice all’opera, se vi piace potete ben dire che rappresenta direttamente l’opera di Dio; se invece la altero e ne ricavo un’immagine fotoprodotta, ebbene questa rappresenta solo o soprattutto me stesso e la mia idea: vi pare la stessa cosa?!? Sono sicuramente cose molto diverse!

Attenzione però, sia chiaro che ottenere e usare le immagini fotoprodotte può essere altrettanto importante e dignitoso! Anzi dico di più: in taluni casi esprimersi con le immagini fotoprodotte può essere ancor più efficace che con le fotografie, al fine di  promuovere una buona causa, per suscitare una certa emozione, porre attenzione su un argomento concreto. Tuttavia un’immagine fotoprodotta è un’altra cosa rispetto a una fotografia.
A chi non interessa questa differenza dico che prendo atto del suo atteggiamento, è legittimo, ma gli dico anche di prendere atto a sua volta che a me invece interessa moltissimo.

Se troviamo su di una rivista l’immagine di un bambino morto (avevo fatto questo esempio ben prima che purtroppo accadesse davvero) i casi sono tre: 1) è una fotografia documentaria: quel bambino c’era ed era veramente morto in relazione all’argomento trattato; 2) è una “fotografia di scena”: il bambino è stato truccato e messo lì durante le riprese di un film, oppure dal fotografo stesso; 3) è un’immagine fotoprodotta: quel bambino è vostro figlio mentre dorme e tutto il resto lo avete messi voi digitalmente. Se non vi interessa sapere questo, e badate solo al messaggio, bèh, è lecito, ma sono gusti vostri. Ci sono casi di fotoreporter licenziati per aver taroccato, senza averlo dichiarato, le fotografie pubblicate sul Times o sul National Geographic, ci dicevano bugie, e per fortuna qualcuno pensa ancora che sia una cosa detestabile e sanzionabile.

Conclusione. Alterare le fotografie è stata un’attività nata il giorno dopo l’invenzione della fotografia stessa, ed è una possibilità meravigliosa, soprattutto con i mezzi odierni che ci permettono di scatenare la nostra fantasia e creatività. Le immagini fotoprodotte sono una possibilità straordinaria di espressione, non solo artistica, che tra l’altro uso anch’io. Ma come in ogni altro campo dell’operare umano possono essere usate per imbrogliare. Monumenti indiscutibili della fotografia come Alfred Stieglitz, Ansel Adams ed Henry Cartier-Bresson sono convinti che le fotografie possano avere a che fare con la “verità”; io non oso sostenere tanto, ma so per certo che le fotografie di per sé non dicono mai bugie! Siamo noi che possiamo interpretarle male e soprattutto sono i fotografi, e altre persone, che possono far dire loro bugie in milioni di modi diversi, prima, durante e dopo lo scatto.
Fotografie e immagini fotoprodotte arricchiscono entrambe in maniera straordinaria il nostro mondo e le nostre vite, ma sono molto diverse, e le parole ci devono aiutare a non confonderle, per non confondere il nostro mondo e le nostre vite.

carlodelli

Per la collaborazione nell’estensione, la modifica e il completamento di questo scritto ringrazio particolarmente Massimo Mussini, Mauro Pieroni, Giorgio Rigon, Giorgio Tani e Giancarlo Torresani, ma anche, per l’epistolario avuto, Silvano Bicocchi, Vincenzo Marzocchini,  Filomeno Mottola, Claudio Pastrone, Marcello Ricci e Piero Sbrana.

 

Una proposta terminologica di Carlo Delli. Seconda parte

L’immagine di copertina “Moth surprie (Saturnide)-Mkuzy-Sud Africa” è di Carlo Delli.

Altro punto essenziale è il concetto di “rappresentazione”: il primo significato di rappresentare è: “far presente” attraverso un linguaggio ciò che esiste ma che non abbiamo davanti perché lontano nel tempo e/o nello spazio. Ma il verbo “rappresentare” è sconosciuto a molti possessori di macchine fotografiche, cosa molto strana dato che la fotografia è rappresentazione della realtà VISIVA tramite il linguaggio fotografico.
Dire che una fotografia sia realtà è una palese idiozia. Credo che molti fotografi sostituiscano erroneamente la parola “rappresentazione” con la parola “riproduzione”, che vuol dire fare una copia uguale all’originale; in pratica dicono “rappresentare” ma intendono “riprodurre”. E allora per loro la fotografia non può rappresentare la realtà, perché così dicendo intendono che la riproduce, ed è ovvio e banale che una fotografia non lo faccia.

Inoltre fotografi e critici omettono quasi sempre un aggettivo fondamentale: VISIVA. La fotografia ha a che fare solo con la parte visiva della realtà. Ora di sicuro la vista è il senso di gran lunga più importante per conoscere la realtà, ma non è l’unico. La realtà è essenzialmente inconoscibile nella sua totalità, l’argomento è chiaramente abissale, ma questo è un motivo in più per parlare in modo corretto.
È dannoso pensare e dire che l’aggettivo “visiva” sia sottinteso quando parliamo di fotografia, è invece assolutamente necessario metterlo sempre. La fotografia si occupa della “realtà visiva” e tramite questa può rappresentare oggetti e fatti; poi, e solo poi, tramite questi oggetti può simboleggiarne altri e addirittura può arrivare a veicolare idee astratte o impalpabili, ma tutto questo è un plus della fotografia, non ne è l’essenza.

Chi ha inventato la fotografia ha spalancato la porta a effetti psicologici immensi, senza fondo, soprattutto per il rapporto esclusivo e terrificante che questa ha col tempo: prima ne cristallizza solo una porzione, e poi la mantiene immutata a dispetto del resto del tempo, che continua a scorrere.
Ma si è aperto anche un mondo materiale e tecnico: pellicole e sensori, obiettivi i più diversi, diaframmi, tempi di esposizione corti o lunghi, scatti in sequenza, etc etc, per cui quello fotografico è un linguaggio ricchissimo di strumenti, che possono essere usati su soggetti infiniti, in modi infiniti, da personalità e sensibilità infinite! Come dico io: un infinito al cubo! Un linguaggio tale che il fotografo può non solo documentare ma anche esprimere la sua personalità, può narrare, e può addirittura creare, pur rimanendo dentro la “fotografia”, senza cioè “alterare” quello che ha registrato la macchina fotografica.

Ed eccoci ad “alterare”, altra parola chiave. Attenzione, vale qui non in senso dispregiativo ma solo nella sua etimologia latina di alter: trasformare in qualcosa di diverso, rendere “altro” rispetto all’originale. Oggi, dopo lo scatto, sono praticamente obbligatori degli aggiustamenti, ma se l’idea del fotografo è quella di rimanere all’interno della “fotografia”, le modifiche devono essere minime e comunque tali da non trasformare l’immagine in “altro”, tali da far restare l’immagine come uno stampo automatico, un indice, di ciò che si poteva vedere davanti all’obiettivo al momento dello scatto.

http://www.carlodelli.it/index.php?option=com_content&view=article&id=101:fotografie-e-immagini-fotoprodotte&catid=33:idee-e-articoli&Itemid=53

Una proposta terminologica di Carlo Delli Prima parte

L’immagine di copertina è di Carlo Delli: “Due pellicani – Shark bay – Australia

 

Gradito ospite sul Magazine è il fotografo Carlo Delli con il suo articolo

Una proposta terminologica

Come siamo diventati Homo sapiens sapiens ? Con un modo nuovo di camminare: il bipedismo perfetto. La mano, libera dalla deambulazione, ha iniziato ad illuminarci la mente, ma sono state poi le parole che formando il nostro principale linguaggio l’hanno finalmente accesa. È propriamente vero che il Verbo ci ha creati! Siamo quali siamo per il nostro linguaggio verbale che non è solo espressivo e comunicativo, come i linguaggi animali, ma è anche descrittivo, espositivo e soprattutto argomentativo-critico.
.   Le singole parole sono essenziali e non secondarie nello sviluppo del nostro pensiero, perché noi pensiamo per lo più usando le parole, e anche quando pensiamo per immagini associamo loro quasi sempre la parola. In più è fondamentale sapere che le parole hanno anche un grandissimo potere inconscio: ci condizionano sempre e molto anche senza che ce ne rendiamo conto.
.   Quindi il significato che personalmente attribuiamo a una parola è cosa essenziale e non secondaria. Da tutto ciò deriva che per occuparci con correttezza di un argomento dobbiamo avere a disposizione non solo le parole che lo riguardano, ma soprattutto avere chiaro il loro significato. Cosa intendiamo allora quando pensiamo in noi, oppure quando pronunciamo verso altri, la parola “fotografia”?

Conoscere la storia della fotografia è indispensabile per capirla bene. La fotografia è una di quelle relativamente rare invenzioni così importanti da dividere la storia dell’umanità in un prima e in un dopo.
.   È sempre stata un sogno fin dalle radici della civiltà, una cosa agognata e quasi insperata; ne parlavano già i greci, e in un romanzo del 1700 erano addirittura gli alieni a portare sulla Terra una sostanza che, spalmata su superfici, formava e tratteneva l’immagine della realtà che aveva di fronte.
.    Il punto di partenza imprescindibile dovrebbe essere scontato ma mi pare che qualcuno se lo dimentichi: per fotografare qualcosa questo qualcosa deve esistere materialmente e bisogna averlo davanti all’obiettivo (o comunque davanti alla superficie fotosensibile – penso al foro stenopeico). I fotoni devono realmente e materialmente partire dai soggetti e arrivare sulla superficie fotosensibile: questo rapporto diretto e la sua automaticità sono la novità assoluta e l’essenza della “fotografia”. Infatti per i semiologi la fotografia è un indice, cioè uno “stampo” di ciò che rappresenta, e non ha niente a che vedere ad esempio con la pittura che invece è sempre un simbolo.

Questo punto è molto importante, e quindi lo ripeto riprendendo il confronto con la pittura. La pittura è un simbolo e non potrà che essere un simbolo, non è e non può mai essere un indice. La fotografia invece ha la sua peculiarità nell’essere un indice, ma può ben essere anche un simbolo, sia come fotografia vera e propria sia come immagine ottenuta manipolandola! Ecco qui la forza poderosa della fotografia rispetto agli altri linguaggi rappresentativi! Tra i più importanti linguaggi rappresentativi solo la fotografia ha un rapporto diretto con ciò che rappresenta, solo la fotografia è un indice.

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