Letizia Battaglia

di Elisabetta Manni

La fotografa di questo mese non poteva che essere Letizia Battaglia venuta a mancare proprio qualche ora fa.

Letizia Battaglia non solo è stata la fotografa italiana più influente del nostro secolo ma fu anche una donna combattente, gran parte della sua carriera la dedicò al racconto più tetro della sua amata Palermo: i palermitani, vittime innocenti, e le stragi di mafia.

Foto di Franco Zecchin

Nasce e cresce nella Palermo degli anni ’30 e la sua voglia di libertà già iniziò a farsi sentire. Iniziò a lavorare a 34 anni come fotoreporter nel giornale locale “L’ora”. Come disse in una sua intervista: “Cominciai a capire che la fotografia mi piaceva più della scrittura, che il giornalismo non era ciò che volevo fare. Con la fotografia sentivo che potevo raccontare anche me stessa”. Diventò così la prima fotoreporter italiana e riuscì a guadagnarsi il rispetto degli altri fotografi, rigorosamente tutti maschi.
Da subito cominciò a fare i conti con gli omicidi di mafia, iniziò quindi a raccontare Palermo: una città in lotta con un nemico quasi invisibile.


Una delle sue fotografie più significative, non solo per l’evidente collegamento con il nostro attuale Presidente della Repubblica, è senz’altro l’attentato a Piersanti Mattarella. Una composizione ordinata e precisa nella più totale confusione che riesce ad incorniciare un momento cruciale di un intero paese. Senza dimenticare il ritratto di Giovanni Falcone, scattato a pochi giorni dalla strage di Capaci.

Letizia Battaglia spese l’intera esistenza a dare dignità alla sua città, una dignità che per molto tempo è stata stracciata dai mafiosi. Sono tantissime le fotografie significative scattate da Letizia Battaglia, un archivio storico-fotografico di Palermo e della sua più grande guerra. Tuttavia, nelle sue foto non c’è solo il racconto delle stragi di mafia ma anche quello degli abitanti della città, dei suoi amati conterranei. I soggetti preferiti erano i bambini, così spontanei e spavaldi davanti all’obbiettivo.

Nel 1985 riceve il “Premio Eugene Smith”, prima fotografa donna europea a ricevere un premio così prestigioso. In tutti questi anni espose nei più famosi e importanti musei del mondo ma è a Palermo che decide di aprire il primo “Centro Internazionale di Fotografia”.
Nel 2019 il regista inglese Kim Longinotto realizza il documentario: “Shooting the Mafia”, con l’intento di raccontare non solo la fotografa ma anche la persona, ciò che era e ciò che è stata Letizia Battaglia.

“La paura non deve condizionarci. La paura è un lusso. io non posso avere paura, noi non dobbiamo avere paura. Io mi sento libera perché sono libera dentro.”

[Letizia Battaglia]

Eve Arnold

di Elisabetta Manni

Eve Arnold è la seconda fotografa che andremo a raccontare all’interno del nostro percorso alla scoperta delle donne nel mondo della fotografia.

Eve nasce nel 1912 a Philadephia da una famiglia di origini russe. il padre crebbe i propri figli secondo i valori socialisti e di uguaglianza, probabilmente è proprio grazie alla figura paterna che Eve crebbe con l’idea di poter diventare chiunque e di poter fare qualsiasi cosa. Come sappiamo, in una società come quella degli anni ’20 e ’30 non era permesso alle donne fare determinati lavori, anche in una società come quella degli Stati Uniti. Iniziò ad avvicinarsi alla fotografia per casualità quando le venne regalata una macchina fotografica, una Rolleircord di medio formato. Trasferitasi a New York, iniziò così il suo percorso da autodidatta in una New York ricca di spunti ad ogni angolo della strada. in seguito, intraprende un corso di fotografia di breve durata, circa sei settimane. Il primo assignment del corso fu un lavoro sulla moda, Eve si trovò spiazzata, non era ciò a cui era abituata anzi, era un passo ben oltre la sua “comfort zone”. Ebbe l’idea di chiedere alla tata del figlio di accompagnarla nel suo quartiere, Harlem, dove si tenevano in media dalle 200 alle 300 sfilate all’anno. Per un’autodidatta non fu particolarmente facile scattare delle foto in un luogo dove la luce scarseggiava e dove i soggetti erano per lo più in movimento, tuttavia, a Alexey Brodovitch, direttore di Harper Bazar, l’idea piacque talmente tanto da suggerirle di proseguire. Anche se le foto riscossero un notevole successo fu difficile riuscire a trovare nell’America degli anni ’50 un giornale che ebbe l’audacia di pubblicare un reportage fotografico con degli afroamericani. Il Picture Post, rivista fotogiornalistica inglese, fu l’unico a pubblicare il suo reportage e a dedicargli ben otto pagine. Proprio grazie a quelle otto pagine che si fece notare dall’Agenzia Magnum, che il quel periodo stava aprendo la sua sede proprio a New York.
Eve Arnold non ha mai negato che all’interno dell’ambitissima agenzia fotografico ha dovuto lavorare duramente e il doppio rispetto ai suoi colleghi uomini, ed è solo dopo qualche anno, nel 1957, che diventa socia a tutti gli effetti: prima fotografa donna dell’agenzia MAGNUM.

Da qui in poi iniziò a cercare storie da raccontare con la sua macchina fotografica, reportage che sono ancora impressi nella memoria collettiva. L’incontro con il mondo di Hollywood avvenne per puro caso quando venne chiamata da Esquire Magazine per chiederle di fotografare Marlene Dietrich. Gli scatti dell’attrice furono soltanto l’inizio di una lunga serie di ritratti a celebrità e personaggi importanti. Solo con una ebbe una relazione speciale, la leggenda per eccellenza di Holywood: Marilyn Monroe.
Con Marilyn Monroe non si trattò solo di lavoro ma riuscì a instaurare un legame d’amicizia solido e profondo.

Nel 1960 sente il dovere di raccontare le lotte per i diritti deigli afroamericani che si diffusero in tutto il Nord America. Per conto di Life Magazine, seguì Malcom X nel suo viaggio lungo il paese. Eve ammise che fu uno dei suoi reportage più complicati poiché essere una donna bianca con la macchina fotografica al collo non era un privilegio, al contrario. Nonostante ciò, riuscì imperterrita a portare a termine il suo lavoro in modo straordinario.

La sua carriera fotografica continuò così, fra qualche scatto ad Hollywood e qualche scatto in giro per il mondo a raccontare storie. Ma che si parli di celebrità o di storie di pura realtà, al centro di ogni suo lavoro c’è sempre stato un solo soggetto: la donna.
Lei stessa afferma che: “Alcuni temi ricorrono con frequenza nel mio lavoro. Sono stata povera e ho voluto documentare la povertà; ho perso un figlio e sono stata ossessionata dalla voglia di fotografare la nascita; mi ha interessato la politica e ho voluto capire quali fossero i suoi riflessi sulla vita di tutti i giorni. Sono una donna, e ho voluto conoscere altre donne”.

Nel 1980, l’American Society of Magazine Photographers le conferisce il premio per il suo lavoro “In China” esposto lo stesso anno al Brooklyn Museum.

Proseguì il suo lavoro di fotografa fino a quando non si spense all’età di 99 anni nella sua casa a Londra.

Margaret Bourke-White

di Elisabetta Manni

Dopo Milano, arriva a Roma la retrospettiva sulla fotografa Margaret Bourke-White: “Prima, donna”, in esposizione fino al 27 febbraio 2022 al Museo di Roma in Trastevere.

Ed è proprio con lei che vogliamo cominciare una raccolta dedicata alle fotografe che hanno lasciato il segno nel mondo della fotografia. Non è un caso se abbiamo voluto iniziare proprio con lei. Margaret Bourke White, infatti, viene considerata la prima donna fotografa, la prima ad entrare nel Pantheon dei grandi fotografi della rivista LIFE.

“Se ti trovi a trecento metri di altezza, fingi che siano solo tre, rilassati e lavora con calma”

Figlia di mezzo di una famiglia borghese del Bronx, inizia a studiare biologia al college; immediatamente, intuisce che il suo posto non è il laboratorio, ma il mondo. Si avvicina alla macchina fotografica un po’ per caso. Durante la sua infanzia non ebbe modo di sperimentare con la fotografia, si limitava ad osservare il padre, un inventore, che abitualmente si interessava di macchine fotografiche in cerca di una nuova invenzione.

Lasciato il college, a venti anni intraprende la carriera fotografica aprendo il suo studio fotografico. Inizia a cimentarsi nella fotografia industriale e le sue foto attirarono subito un cospicuo numero di clienti. Con la macchina fotografica riusciva a donare sinuosità e morbidezza a materiali come acciaio e ferro; tubi e ciminiere si trasformavano in forme astratte e oniriche. Le fabbriche erano un luogo confortevole; il fuoco non lo temeva, anzi si avvicinava pericolosamente pur di portare a casa lo scatto perfetto.

Nel 1929 viene contattata da Henry Luce, caporedattore del Time, per collaborare alla nuova rivista, Fortune. Non ci volle molto per farsi notare, infatti, qualche anno dopo, la sua foto della diga di Fort peck, in Montana, venne pubblicata come immagine di copertina. Prima di allora nessuna fotografa aveva avuto una foto pubblicata in un giornale così importante come il TIME. Inevitabilmente segnò una svolta storica nel campo della fotografia soprattutto per le donne. Erano gli anni ’30 e anche in una nazione moderna come gli Stati Uniti d’America le donne dovevano lottare per far valere il proprio lavoro. Quindi, la foto di copertina, oltre ad essere una foto valida, diventava un simbolo per tutte le fotografe.

L’audacia di Margaret Bourke-White non si fermò. Continuò la sua prima passione, la fotografia industriale, ma allo scoppio della seconda guerra mondiale si ritrovò in Europa come fotografa di guerra. Una delle foto più importanti che scattò durante la sua carriera fu quella scattata durante il suo soggiorno a Mosca. Era il 1941 e Margaret Bourke-White fu l’unica fotografa e l’unica straniera a riuscire a fotografare Iosif Stalin in URSS. L’unica americana in URSS.

All’età di cinquant’anni le venne diagnosticato il Parkinson. Nonostante ciò, continuò a fotografare fino a quando la malattia glielo permise. Proprio durante questo periodo si avvicinò alla scrittura lasciandoci in dono la sua autobiografia “il mio ritratto”.

Nel 1989 l’attrice Farrah Fawcett interpreta la fotografa nel film autobiografico “Double exposure: the story of Margaret Bourke-White”, regia di Lawrence Schiller.

Divagazioni sulla fotografia di Stefano Marcovaldi

Oggi ci circondano, tantissime immagini, realizzate con molteplici strumenti, macchine fotografiche elaborate, semplici, usa e getta, telefoni cellulari e tanto altro. Come le consideriamo, come le giudichiamo o le critichiamo? Non è  importante il mezzo ma la finalità e il risultato. Ogni volta che si ammira una foto si sente dire: CHE BELLA FOTO!

Ma cosa si vuole dire, veramente, con questa affermazione? E’ corretta? Quali sono i parametri che utilizziamo per valutare tale immagine? Cosa c’è o non c’è di particolare in quella foto?

Soprattutto chi siamo noi, un fotografo professionista, un fotoamatore (a qualsiasi livello) o un semplice amante delle arti figurative, che cultura fotografica abbiamo per dare un giudizio più consono e preciso?

Forse è più preciso dire “Che Buona Foto” bello può essere il soggetto, una modella, un paesaggio, un tramonto e così via, ma non la foto nel suo insieme.

La fotografia deve raccontare, anche se il soggetto ripreso non è inteso come Bello, le foto di mafia di Letizia Battaglia, le immagini di guerra, dallo sbarco in Normandia al Vietnam alle vicende contemporanee ne sono un esempio.

Andiamo ad indagare le modalità di valutazione, che sono personali e molteplici, soffermandoci su di esse con una maggiore attenzione per capire se il giudizio dato è corretto o meno.

Individuando nella fotografia, come opera d’ingegno, la forma d’arte più importante del ventunesimo secolo, molti artisti la usano come documento di performance o azioni quotidiane, mentre altri inventano scene e narrazioni per raccontare storie immaginarie. mentre ci offrono sia dettagli pubblici che   privati. La fotografia è un mezzo per creare storie, mentre è anche depositaria di valori personali, sociali e culturali. 

Iniziamo da un domanda: Che cos’è una fotografia?

Non è così semplice da definire perché tanti sono i concetti che si inseriscono nella sua costruzione, ed essendo non soltanto un risultato di situazioni meccaniche di riprese attraverso un obiettivo, ma anche il volere comporre e soprattutto comunicare un pensiero, un messaggio, qualunque soggetto che è presente in una immagine resta un oggetto sterile se non viene interpretato, se non viene letto attraverso quella forma di reciproca comprensione che è il linguaggio fotografico.

Il linguaggio è il mezzo per comunicare che ci accompagna dall’inizio della nostra civiltà e della nostra cultura. Con esso ritengo ci siano importanti qualità che vanno individuate in una buona fotografia ed è la loro sintesi a produrre l’immagine corretta.

La Composizione:

Nella composizione troviamo vari controlli da effettuare: 

Nitidezza dell’immagine e l’esposizione, ed a questo pensa in genere la macchina senza la quale non ci può essere un modo di rappresentazione corretto.

Inquadratura: ciò che entra nel rettangolo del fotogramma: guardando nel mirino il fotografo decide quanto può e deve far parte dell’immagine e si rende conto di come i vari elementi agiscono uno rispetto all’altro: dipende dalla distanza tra fotocamera e soggetto e dalla focale dell’obiettivo. Disposizione e rapporti reciproci delle forme, linee e colori nell’immagine; posizione del soggetto e degli altri elementi. 

Prospettiva: dipende dalla distanza tra soggetto e fotocamera e dall angolo di ripresa per cui cambia allontanandosi o avvicinandosi al soggetto, spostandosi verso destra o verso sinistra, tenendo la fotocamera all altezza degli occhi, più alta o più bassa. Illuminazione: qualità della luce (laterale, diffusa, controluce) e disposizione dei vari elementi chiari, scuri dei colori. 

Azione: fermo / in movimento. 

La tecnica è facile perché ben definita, oggettiva, si può apprendere facilmente; tutti possono ottenere fotografie tecnicamente perfette. (le regole della composizione)

Ma anche rispettando queste regole basilari le immagini prodotte ci possono lasciare indifferenti. 

La composizione è soggettiva, implica sensibilità e gusto; è il risultato della cultura fotografica (linguaggio fotografico) personale e i fattori che la determinano sono in gran parte soggettivi e ciò che piace a una persona può lasciare indifferente un altra. La composizione ha che fare col modo di pensare del fotografo, inizia nel momento in cui si decide di scattare una fotografia; ed è il fotografo, normalmente, che sa cosa vuole comunicare.

La composizione è quindi un concetto,principale e personale; non ci saranno mai due fotografi che lavorano allo stesso modo.

Ma non soltanto questi arrivano a caratterizzare la fotografia ed a renderla leggibile all’osservatore servono anche:

la forma, senza la quale il contenuto resta scomposto; 

il contenuto, (linguaggio fotografico) cioè il racconto che l’immagine svolge.

Ed altre componenti (intenzioni) contribuiscono al risultato: 

l’autore, l’opera stessa, e l’osservatore dell’opera fotografica. 

“L’autore” 

è intimamente collegata all’autore stesso ed al significato che vuole assegnarle in quell’istante, perciò non facilmente spiegabile in modo generico perché soggettiva.

“L’opera”. 

Vale a dire che la fotografia a volte può essere autonoma ed avere dei significati che non sono quelli che l’autore desiderava, ma vengono a delinearsi automaticamente proprio perché quell’immagine è stata realizzata in “quel determinato momento”, in “quel determinato ambiente” e così via. L’opera assume dunque un proprio carattere al quale l’autore ha contribuito solo in modo marginale e fortuito.

“L’osservatore”.

Questa non è marginale, anzi direi forse la più importante fra tutte le componenti con cui ci si avvicina alla lettura della fotografia, ed la ritengo la principale. L’osservatore davanti a una fotografia, al di là della sua cultura fotografica ma seguendo il suo istinto e sensibilità, darà una particolare lettura dei contenuti compositivi. La lettura non sempre avviene contemporaneamente alla visione della foto stessa ma anche dal ricordo di immagini tratte dalla memoria che in occasioni passate gli sono capitate davanti. Memoria visiva inconscia.

Quando esistono questi punti di riferimento si può dire che la fotografia ha una sua leggibilità. E’UNA BUONA FOTO

Forse dell’immagine fotografia ci può interessare anche, sotto altri diversi aspetti, sia varie filosofie sia quello che noti autori e scrittori hanno affermato nei loro scritti, sia il modo in cui la descrivono e interpretano. Sicuramente la loro opinione contribuisce a formarci una sorta di influenza che tende a condizionare, in maniera inconsapevole, il nostro vedere. 

Prendere sul serio la fotografia significa anche riflettere sul suo ruolo. 

Le mani e la loro gestualità nella fotografia, esempi e significati di Stefano Marcovaldi

di Stefano Marcovaldi

in copertina foto: anonimo

Secondo Aristotele le mani sono una diramazione del cervello. 

Il linguaggio del corpo, e soprattutto delle mani, è importantissimo.

Le mani comunicano.

Le fotografie delle mani sono incisive e comunicative.

Con le mani si parla, si lavora, si trasmette il proprio io al nostro interlocutore. Se il primo contatto che stabiliamo è attraverso gli occhi, sono le mani che raccontano ed evocano ciò che immaginiamo, ed in effetti mentre parliamo spesso le usiamo per costruire intorno a noi ciò che stiamo descrivendo (gestualità).

Sappiamo bene quanto le mani riescano a parlare.

Sono un soggetto inesauribile.

Fotografarle è soprattutto creare una selezione di ciò che abbiamo di fronte un’azione che condensa dentro un rettangolo solo una parte di quello che osserviamo, un dettaglio capace di raccontare tutto.

Non sono scelte facili ci vuole poco a cedere al banale, perché per decidere di lasciare fuori tutto, tranne un solo particolare, ci vuole  capacità e talento.

Ma cosa serve perché un dettaglio funzioni?

Deve avere intanto una forma riconoscibile, si deve capire a cosa appartiene per poter immaginare tutto il resto.

Un dettaglio deve funzionare bene dal punto di vista compositivo: linee e forme devono essere “forti” per poter vedere, con l’immaginazione, quello che non si può o non si vuole mostrare.

Spesso il contatto visivo di chi osserva una foto punta sulle mani, sui loro gesti.

Alcuni esempi:

Alfred Stieglitz

ha raccontato un’artista attraverso il dettaglio delle mani. 

Sono quelle di Georgia O’Keeffe; espressive come sculture. E siamo nel 1919…

Gergio-OKeeffe-ritratta-da-Alfred-Stieglitz-mezzo-busto-e-mani-253x300

André Kertész

 Bras et ventilateur, New York, 1937.

923174850da7579ba7261d18d22e6e72--andre-kertesz-the-pixels

Tina Modotti

modotti mani

Tina Modotti

Modotti piedi

Man Ray

man ray

Imogen Cunningham

Self Portrait (1932)

Self Portrait 2, 1932

Imogen Cunninghammartha

“Aenikkaeng”di Michael Vince Kim a cura di Elisabetta Manni

di Elisabetta Manni

in copertina: Progreso – Un tempo porto di arrivo per gli immigrati coreani

Michael Vince Kim nacque a Los Angeles da genitori coreani ma dopo pochi mesi la famiglia decise di trasferirsi in Argentina. Studiò regia cinematografica presso l’Universidad del Cine di Buenos Aires e conseguì un Master in Linguistica presso l’Università di Edimburgo. Successivamente ottenne il Master in Documentary Photography presso il London College of Communication. La sua storia lo ha portato a concentrarsi sulle questioni di migrazione e identità, in particolare sulle diaspore coreane negli Stati post-sovietici con il Reportage “Far from distant shores” e in America Latina con il reportage “Aenikkaeng”. Quest’ultimo, nel 2017, vinse il primo premio nella categoria People Stories del World Press Photo Contest.

Aenikkaeng ci mostra uno spaccato di storia coreana dimenticata dagli stessi coreani. Il fotografo stesso, in un’intervista afferma che il suo reportage è sì una ricerca personale di identità ma ha anche lo scopo di portare alla luce e far conoscere la storia dei primi coreani in Messico

La parola Aenikkaeng (애니깽), infatti, è la trascrizione coreana della parola Henequen, tuttavia viene utilizzata dal fotografo per identificare i 1033 coreani che partirono nel 1905 verso il Messico, precisamente verso lo stato dello Yucatan.

michael-vince-kim_aenikkaeng_12
Sandra: una coreana-cubana

Le cause che spinsero i coreani a partire sono varie: nel 1905 la Russia perse la guerra con il Giappone e quest’ultima riuscì ad ottenere il protettorato sulla Corea diventando  la più grande potenza mondiale nell’area del Pacifico; nel 1910, la penisola coreana venne annessa al territorio giapponese dando inizio al periodo più buio della sua storia. I coreani capirono da subito che non avrebbero avuto altra scelta che scappare altrove; in questo li aiutò il Messico, più precisamente il Presidente Porfirio Diaz che durante il suo mandato attuò una politica espansionistica e di investimento. Ma non  fu una salvezza per i coreani che migrarono in Messico; gli venne infatti proposta un’allettante offerta di lavoro in un paese paradisiaco, un contratto della durata di 4 anni che però si rivelò essere tutt’altro. Attraverso un’attenta ricerca è risultato che queste persone vennero vendute come schiavi per sopperire alla mancanza di manodopera nelle piantagioni di agave nello Stato dello Yucatán, in Messico.

michael-vince-kim_aenikkaeng_10
Joaquin, un coreano-maya di seconda generazione, celebra il suo novantesimo compleanno

Nelle foto ritroviamo tutti gli elementi che caratterizzano il racconto degli Aenikkaeng: il mare, le piante di agave, ecc. ma il soggetto principale di ogni foto è il senso di malinconia che si percepisce, soprattutto negli sguardi assenti delle persone ritratte, come se il fotografo avesse voluto marcare quella distanza dalle proprie radici. Le persone ritratte sono i discendenti dei primi coreani-messicani: Joaquin, fotografato durante la celebrazione del suo 90° compleanno, è il figlio di un coreano e una donna maya; Sandra, terza generazione, è una coreana-cubana, il suo antenato coreano si trasferì a Cuba nel 1910 dopo il termine del contratto nello Yucatán; le sorelle Olga e Adelina, appartengono ad una famiglia che è una delle poche che non ha un’eredità mista infatti i loro ascendenti erano entrambi coreani; Cecilio un musicista che porta avanti la tradizione musicale coreana rivisitata in chiave cubana, simbolo di questa doppia identità.

michael-vince-kim_aenikkaeng_11
L’arazzo di questa casa onora la tigre, una figura importante nel folklore culturale coreano

Donkey at henequen plantation. Sotuta de Peon, Mexico. 2016.
Piantagione di agave

Tutte queste persone hanno in comune il semplice fatto di avere degli ascendenti coreani e molti di loro probabilmente non hanno mai avuto contatti diretti con la madre patria ma, nonostante tutto, persistono nel mantenere vive le loro radici, la loro identità coreana  inserendola nella vita latina; la foto dell’Hanbok appeso nella stanza da letto è l’esempio più significativo, insieme al quadro delle due tigri, animale simbolo della Corea. Michael Vince Kim quindi, grazie alla fusione di questi elementi sia coreani che latini, è riuscito a rendere, attraverso la fotografia, sia la storia dei primi coreani arrivati in Messico sia quella dei successori che continuano ad onorare i loro antenati e le loro radici.

michael-vince-kim_aenikkaeng_16
Le sorelle Olga e Adelina. Il nonno Lim Cheon Taek fu una persona importante della comunità coreana

michael-vince-kim_aenikkaeng_18
Cecilio, musicista coreano-cubano suona la tradizionale musica popolare coreana “Arirang” in stile cubano

michael-vince-kim_aenikkaeng_20
Abito tradizionale coreano di una giovane maya-coreana

 

Font: https://www.michaelvincekim.com/

La Fotografia Etnografica ed i riti della Settimana Santa a Francavilla Fontana di Stefano Marcovaldi

In tutti i comuni della Puglia si svolge la caratteristica processione dei Misteri. Di  grande impatto e suggestione sono le rappresentazioni che si svolgono in notturno a Francavilla Fontana. I riti della settimana santa rappresentano uno degli eventi più importanti e rinomati che si svolgono nell’intera area jonico-salentina durante il periodo pasquale.

02 Pappamusci

03 Pappamusci

05 Pappamusci

Hanno inizio il venerdì di Passione, antecedente alla Domenica delle Palme.

Questo reportage inizia con l’uscita dei “Li pappamusci” (nome che deriva dal greco antico, forse ad indicare il “prete nero” o “prete lento, silenzioso”. Inoltre c’è chi ritiene l’origine del nome, derivante dalla lingua spagnola, individuando nei Pappamusci, i “papamoscas”, cioè gli sciocchi, che sono coppie di confratelli della Congregazione del Carmine, che dalle prime ore pomeridiane del giovedì santo, per tutta la notte, fino al tramonto del venerdì santo, attraversano il paese scalzi, in gesto di penitenza, visitando tutte le chiese cittadine e pregando davanti ai sepolcri, dove riposa il Cristo morto.

06 Pappamuscio

07 Pappamusci

08 Pappamusci

09 Processione dei misteri Preparazione

Sono vestiti con una veste bianca semplice o ricamata. Alla cintura hanno il cingolo, simbolo del sacrificio; sul petto lo scapolare, l’abitino color marrone, segno dell’appartenenza alla Confraternita e privilegio, anzi “Decor Carmeli”, proprio del Carmine. C’è anche il cappello, ad indicare il rispetto e l’ossequio del pellegrino. Infine si caratterizzano per la presenza del cappuccio, che nasconde il volto, e per il bordone, il bastone dei pellegrini.

10 Processione di giorno

11 Processione dei Misteri

12 Crocieferi

13 Crociferi

Il venerdì Santo i pappamusci continuano il loro pellegrinaggio durante la mattina, che è accompagnata dalle processioni di tre statue raffiguranti la Vergine Desolata, che ogni anno (essendo sei le confraternite) cambiano. La sera è, invece, dedicata alla processione dei Misteri, simbolo della morte di Cristo. Durante la processione, aperta dalla Croce dei Misteri, sfilano i confratelli delle varie congreghe trasportando le statue rappresentanti i vari momenti della Passione, realizzate in cartapesta policroma dell’Ottocento e montate su lettighe nell’area ottagonale all’interno della Chiesa di Santa Chiara dove sono conservate. Un passo lento conduce l’intera processione per le vie principali di Francavilla, guidato dal suono della “trenula”. Un momento particolare è costituito dai “Crociferi”, penitenti o semplicemente devoti, anch’essi scalzi ed incappucciati (per rimanere anonimi), che trasportano pesanti travi di legno sulle spalle, La processione è conclusa dal clero cittadino, che precede la statua di Cristo morto, portata in spalla dai confratelli della Morte.

14 Crocieferi

Tremule1

Tremule2

 

I ritratti di Zhuang Xueben di Elisabetta Manni

di Elisabetta Manni

Zhuang Xueben, nasce a Shangai nel 1909. Inizia a lavorare come fotoreporter per la rivista Liangyou (良友 – The Young Companion) di Shangai. Nel 1934 intraprende un viaggio lungo 10 anni verso le regioni occidentali della Cina tra cui Sichuan, Yunnan, Gansu e Qinghai, terre sconosciute abitate da minoranze etniche come i Qiang, Tibetani, Yi, Dongxiang, Bao’an, ecc.

I suoi appunti e le sue fotografie sono rimasti troppo a lungo dimenticati e solo dopo la sua morte si è compresa l’importanza storica di quel patrimonio artistico e culturale. Grazie al figlio, ad oggi possiamo godere a pieno di quei ritratti enigmatici e intensi di quei popoli, ormai, quasi del tutto perduti.

 

Donna con bambino di etnia Yi

Donna di etnia Qiang nel villaggio di Baoxigou

I suoi diari e le sue fotografie documentano la vita quotidiana e le tradizioni culturali di questi popoli e ad oggi questo patrimonio ha acquisito un valore accademico soprattutto in campo antropologico. Proprio in quegli anni la società cinese sosteneva che le minoranze etniche fossero dei barbari con i capelli arruffati, dei carnivori che vivevano in vaste aree selvagge.

Donne adornate del villaggio di Shigutun

Madre e figlia nel villaggio di Baqinao

Nel 1965 durante la Rivoluzione culturale messa in atto da Mao Zedong, Zhuang Xueben venne espulso per “problemi storici”, fa ritorno quindi a Shangai con la famiglia e lascia la carriera fotografica, inoltre gran parte del suo lavoro venne bruciato.

I suoi appunti e le sue fotografie sono rimasti troppo a lungo dimenticati e solo dopo la sua morte si è compresa l’importanza storica di quel patrimonio artistico e culturale. Grazie al figlio, ad oggi possiamo godere a pieno di quei ritratti enigmatici e intensi di quei popoli, ormai, quasi del tutto perduti.

Signore dell'etnia Black Yi e il suo servitoreUomo di etnia White Yi

Sources: http://photographyofchina.com/zhuang-xueben/

https://artsandculture.google.com/asset/father-of-the-white-yi-man-gou-shifa/nwESrssz0WCTAQ

 

Fotoit settembre: Leggere di fotografia – Walter Guadagnini : Fotografia, quaderni d’arte e comunicazione

di Paola Bordoni

E’ il testo che tutti avremmo voluto trovare agli inizi del nostro percorso di conoscenza fotografica quando occorreva una guida che tracciasse il cammino per l’acquisizione degli strumenti metodologici, critici e tecnici della comunicazione visiva. La scrittura semplice e rapida ci conduce all’analisi dell’evoluzione e del cambiamento della fotografia e dei suoi linguaggi, separando il complesso percorso in tre parti: storico, tecnico e lettura di immagini con 25 schede dedicate, secondo la logica della interdisciplinarietà, a rappresentare la complessa storia e la multiforme natura della fotografia.

Fotoit settembre: Leggere di fotografia – Walter Guadagnini “Una storia della fotografia dal XX al XXI secolo”

 

di Paola Bordoni

Un buon libro, per essere definito tale, deve soddisfare numerose nostre esigenze: deve essere testo di riferimento nel quale cercare quella particolare immagine che non ricordiamo; deve soddisfare il nostro gusto di leggere ed apprendere il suo contenuto; deve diventare parte di una nostra personale raccolta di testi, e tanti altri usi; in tutto questo il volume di Guadagnini è un ottimo libro. Ma la sua qualità maggiore è soprattutto quella di essere un saggio scritto come una densa narrazione dove la storia della fotografia diviene un insieme di storie perché, come scrive l’autore “la fotografia vive all’interno di un più articolato sistema di relazioni, non è solamente una forma d’arte, è una pratica”. Suddiviso per blocchi cronologici, esamina le multiple identità della fotografia ed i loro rapporti con il contesto sociale, politico, economico e non da ultimo quello dell’innovazione tecnica, percorrendo gli anni che vanno dagli ultimi decenni del XX secolo fino ai nostri giorni.

Una storia della fotografia del XX e del XXI secolo (1)