Una proposta terminologica di Carlo Delli. Seconda parte

L’immagine di copertina “Moth surprie (Saturnide)-Mkuzy-Sud Africa” è di Carlo Delli.

Altro punto essenziale è il concetto di “rappresentazione”: il primo significato di rappresentare è: “far presente” attraverso un linguaggio ciò che esiste ma che non abbiamo davanti perché lontano nel tempo e/o nello spazio. Ma il verbo “rappresentare” è sconosciuto a molti possessori di macchine fotografiche, cosa molto strana dato che la fotografia è rappresentazione della realtà VISIVA tramite il linguaggio fotografico.
Dire che una fotografia sia realtà è una palese idiozia. Credo che molti fotografi sostituiscano erroneamente la parola “rappresentazione” con la parola “riproduzione”, che vuol dire fare una copia uguale all’originale; in pratica dicono “rappresentare” ma intendono “riprodurre”. E allora per loro la fotografia non può rappresentare la realtà, perché così dicendo intendono che la riproduce, ed è ovvio e banale che una fotografia non lo faccia.

Inoltre fotografi e critici omettono quasi sempre un aggettivo fondamentale: VISIVA. La fotografia ha a che fare solo con la parte visiva della realtà. Ora di sicuro la vista è il senso di gran lunga più importante per conoscere la realtà, ma non è l’unico. La realtà è essenzialmente inconoscibile nella sua totalità, l’argomento è chiaramente abissale, ma questo è un motivo in più per parlare in modo corretto.
È dannoso pensare e dire che l’aggettivo “visiva” sia sottinteso quando parliamo di fotografia, è invece assolutamente necessario metterlo sempre. La fotografia si occupa della “realtà visiva” e tramite questa può rappresentare oggetti e fatti; poi, e solo poi, tramite questi oggetti può simboleggiarne altri e addirittura può arrivare a veicolare idee astratte o impalpabili, ma tutto questo è un plus della fotografia, non ne è l’essenza.

Chi ha inventato la fotografia ha spalancato la porta a effetti psicologici immensi, senza fondo, soprattutto per il rapporto esclusivo e terrificante che questa ha col tempo: prima ne cristallizza solo una porzione, e poi la mantiene immutata a dispetto del resto del tempo, che continua a scorrere.
Ma si è aperto anche un mondo materiale e tecnico: pellicole e sensori, obiettivi i più diversi, diaframmi, tempi di esposizione corti o lunghi, scatti in sequenza, etc etc, per cui quello fotografico è un linguaggio ricchissimo di strumenti, che possono essere usati su soggetti infiniti, in modi infiniti, da personalità e sensibilità infinite! Come dico io: un infinito al cubo! Un linguaggio tale che il fotografo può non solo documentare ma anche esprimere la sua personalità, può narrare, e può addirittura creare, pur rimanendo dentro la “fotografia”, senza cioè “alterare” quello che ha registrato la macchina fotografica.

Ed eccoci ad “alterare”, altra parola chiave. Attenzione, vale qui non in senso dispregiativo ma solo nella sua etimologia latina di alter: trasformare in qualcosa di diverso, rendere “altro” rispetto all’originale. Oggi, dopo lo scatto, sono praticamente obbligatori degli aggiustamenti, ma se l’idea del fotografo è quella di rimanere all’interno della “fotografia”, le modifiche devono essere minime e comunque tali da non trasformare l’immagine in “altro”, tali da far restare l’immagine come uno stampo automatico, un indice, di ciò che si poteva vedere davanti all’obiettivo al momento dello scatto.

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