Nardò di Sergio D’Alessandro

Nardò, la Neriton greca e la Neretum romana, è il comune più esteso e più popolato del Salento dopo il capoluogo Lecce. E’ insieme a Lecce ed a Gallipoli uno dei centri principali del Barocco Leccese.  Ha uno sbocco al mare prestigioso con le due località di Santa Maria al Bagno e Santa Caterina, oltre alla Riserva Naturale di Porto Selvaggio.

Le sue origini si devono ad un insediamento di Messapi provenienti dall’Illiria tra l’XI ed il IX secolo a.c.

Alla metà del III secolo a.c. diventa parte dell’Impero Romano per poi passare, nei secoli successivi, prima sotto il controllo Bizantino e poi Normanno.

Alla fine del 1400, sotto il possedimento dei duchi di Acquaviva, divenne il principale centro culturale del Salento. Nella rivolta antispagnola di Masaniello a metà del 1600, Nardò insorge e costringe il Duca alla fuga; ritornerà e la città conoscerà una forte repressione. I Duchi di Acquaviva manterranno il loro dominio feudale fino all’inizi del 1800.

Di nuovo nel 1920 fu teatro di scontri e proteste conto lo strapotere dei latifondisti.

Tra il 1943 ed il 1947 gli Alleati decisero di ospitare qui oltre 100.000 deportati ebrei scampati ai campi di sterminio in attesa di trasferirsi nel nascente stato di Israele, tra loro Ben Gurion, Moshe Dayan e Golda Meir.

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“Piccola Russia” in mostra il 15 dicembre a San Lorenzo

Il 15 dicembre si inaugura la mostra “Piccola Russia” di Andrea Alessandrini.

Appunti visivi incentrati sul rapporto tra uomo e ambiente in un momento di grandi cambiamenti per l’area di Valle Aurelia. Il lavoro vuole porre domande invece di fornire risposte e riflettere sulla città, sulla bellezza da preservare, sulla possibilità di scoprirla anche dove non sembra essere. Aguzzando l’occhio e la mente, ascoltando il ritmo dei propri passi evitando le strade già segnate.

La mostra è stata curata da D.O.O.R.

Sabina Bernardelli JewelsPiazzale Tiburtino, 21 dalle ore 18:30, musiche di Vitantonio Mastrangelo

 

 

“L’OSPEDALE DELLE BAMBOLE” di Michela Poggipollini

Di Michela Poggipollini

 

Vicinissimo a Piazza del Popolo, nel centro storico di Roma, tra Via di Ripetta e Via del Vantaggio, c’e un negozietto di restauro artistico, meglio conosciuto come “L’ospedale delle bambole”.

Quando ero bambina chiedevo sempre di fermarmi, incantata davanti a quella vecchia vetrina delle meraviglie, tutta impolverata. Vedevo bambole accatastate una sull’altra e gambe, braccia, mani, occhi che immaginavo un mago curasse e ricomponesse  con amore e delicatezza per restituirle alla vita ed alla loro proprietaria.

Recentemente sono andata al negozietto per aggiustare un oggetto di porcellana e, una volta dentro, ho visto file di bambole allineate, decapitate e senza occhi, convivere con marionette, gufi, Pinocchi, soldatini di piombo ed oggetti antichi, uno sull’altro in un sapiente disordine che solo il mago conosceva e tutto ricoperto dalla polvere. Mi è sembrato un negozio un po’ inquietante  ma anche molto interessante e proprio questo, come fotografa, mi ha attratta.

Ho cominciato a scattare una foto dietro l’altra ma non in tutti questi scatti riuscivo a rievocare le emozioni che provavo quando ero bambina.

Allora sono andata fuori davanti la vetrina di Via del Vantaggio, dove allora sostavo affascinata, e nella fragilità di queste bambole nude e malate o vestite di abiti principeschi, ho ritrovato  la bellezza di alcuni  particolari soprattutto quando i raggi del sole le colpivano.

 

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La fotografia nel film “Slumdog Millionaire” – parte terza

di Erica Cremenich

Per la realizzazione di alcune scene, sono stati utilizzati anche degli specchi, che sono risultati estremamente utili. Un escamotage questo che risulta molto più vicino al carattere un po’ meno diretto dei film della cinematografia tradizionale indiana piuttosto che di quella occidentale. Nello specifico, quando Salim spara a Maman, non viene mostrato lo sparo in sé, perché il cast teneva in considerazione il divieto di visione ai minori di tredici anni. Ha, quindi, fatto solo in modo che si vedesse e udisse l’impatto dello sparo senza mostrarlo esplicitamente. Ci è riuscito, appunto, usando una serie di specchi.

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La risposta sbagliata, suggerita dal presentatore a Jamal, durante l’interruzione pubblicitaria, viene scritta su uno specchio e non è stato facile poterla rendere. 

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Nella stanza in cui muore Salim ci sono degli specchi. Più avanti, ecco Mittal, nuovamente, davanti allo specchio.

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II regista insiste sull’uso di vari colori che vengono riproposti, nell’arco dello svolgimento del film, come i gialli e i blu molto saturi che ricorrono, specialmente, nelle sequenze, che si snodano all’interno dello studio televisivo. Il regista Danny Boyle insieme con la costumista Suttirat Anne Larlarb hanno deciso di abbinare il colore giallo al personaggio di Latika. Lo spettatore lo nota e lo ricorda. Latika ha il vestito giallo da piccola e la sciarpa gialla da grande. Il giallo è anche il colore dell’oro. Infatti, Latika è preziosa per Jamal decisamente più di quanto possa esserlo il montepremi televisivo.

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Chiaramente, gli slum di Bombay sono un esplosione enorme di colori che ben rappresentano il fatto che siano sempre in continua crescita, cambiamento, in un continuo divenire. Le scene in notturna con i bambini sono state create ad hoc con l’utilizzo di una particolare illuminazione, in quanto era proibito far lavorare i bambini di notte e risultano molto suggestive e particolarmente veritiere. 

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Usando queste metodologie e strumentazioni, la troupe è riuscita a realizzare una fotografia d’eccellenza che rimane impressa nella mente dello spettatore persino dopo che sono trascorsi anni dalla visione del film. Tale fotografia  si è aggiudicata anche un meritato Oscar nel lontano 2009. 

La fotografia nel film “Slumdog Millionaire” – parte seconda

di Erica Cremenich

Nella scena in cui i due ragazzini entrano in un bordello alla ricerca di Latika, Thomas Nievelt, l’elettricista dà al direttore della fotografia Anthony Dod Mantle e agli attori la capacità di muoversi liberamente all’interno della stanza, illuminandola attraverso finestre alte e utilizzando luci 6K HMI contro specchi e pannelli riflettenti. Tale tipico modo di lavorare si adotta, normalmente, nei film danesi del movimento cinematografico danese “Dogma 95”, di cui sia T. Nievelt che A. D. Mantle facevano parte.  Nel film sono presenti molti primi piani che isolano i personaggi e ci permettono di penetrare nella loro dimensione interiore. I primissimi piani, invece, vengono molto usati per riprendere i bambini e conferiscono loro debolezza, mantenendoli in una posizione inferiore rispetto agli adulti. 

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La ripresa dei dettagli non è mai casuale ma particolarmente funzionale alla narrazione.  Molte inquadrature, girate con macchine inclinate, risultano storte, sbieche e, susseguendosi con una ripetitività quasi ossessiva, ben comunicano il senso di provvisorietà e instabilità che caratterizza i personaggi.  Le inquadrature, infatti, sono spesso brevi e veloci di durante appena sufficiente o addirittura insufficiente alla loro lettura per l’alto contenuto emozionale.

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Ognuna di esse è particolarmente studiata, sinergica e, potremmo dire,  ipercinetica. Questo tipo di fotografia ci ricorda quella di un altro grande nome del cinema, Orson Welles. Da un punto di vista prettamente tecnico, le inquadrature del film si sviluppano da posizioni differenti, da più punti di vista della stessa scena. Ci sono, infatti, molti cambiamenti dei punti di ripresa che risultano funzionali soprattutto nelle molte scene d’inseguimento in stile western. 

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Le inquadrature dall’alto “aeree” sono alternate con quelle da terra e i primi piani a piani lunghi e lunghissimi.  Potremmo definire la fotografia, in linea di massima nervosa, quasi da videoclip. Palesemente, in stile videoclip all’occidentale, viene ripresa l’ultima scena di ricongiungimento dei due amanti tramite il balletto in stile bollywoodiano che si svolge sul sottofondo musicale della canzone “Jai Ho!”. 

La fotografia nel film “Slumdog Millionaire” – parte prima

di Erica Cremenich

La fotografia rappresenta, sicuramente, l’aspetto più curato e riuscito dell’intero film. Considerando la strumentazione impiegata per girare alcune scene, la troupe ci rivela che sono state usate, prevalentemente, fotocamere ma anche videocamere digitali molto sofisticate ma, di certo, moderne, piccole, maneggevoli e flessibili. Lo scopo di tale impiego, infatti, era conferire al film maggiore realismo, rendere la recitazione degli attori anche non professionisti più naturale possibile e permettere di entrare meglio al livello dei bambini presenti in gran parte della pellicola.

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Inoltre, tale fabbisogno tecnico permetteva di poter passare inosservati negli slum di Bombay, ambientazione molto ricorrente, dove, altrimenti, sarebbe stato impossibile gestire il caos e la folla che, in tal modo, è risultata molto più rilassata e disinvolta. Il fluire della vita a Bombay viene colto magistralmente e, in esso, lo spettatore viene catapultato, fin dalla prima scena, dove la camera rimbalza attraverso strette vie e capanne cittadine alla stessa grandissima velocità dei bambini, seguendo e catturando i loro rapidi movimenti.

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Tramite tale accurata strumentazione, è stato anche possibile catturare la poca luce presente per i vicoli della città, operazione per nulla semplice e fare riprese in luoghi dove ottenere un permesso ufficiale per girare sarebbe stato molto difficile, come all’interno del Taj Mahal. Nella fattispecie, la Canon aveva fornito alla produzione una fotocamera 1D mark III, che può scattare raffiche fino a trenta immagini raw al secondo, usata per girare una delle scene culminanti del film, che riguarda il momento in cui del denaro viene gettato in aria. Aveva procurato alla troupe anche la fotocamera Canon EOS-3 con una funzione che permette di scattare a undici fotogrammi al secondo, la quale fornisce una forte intensità di colore, usata per girare la bellissima inquadratura di Latika a diciotto anni a Victoria Terminus, immagine speciale che ricorre più volte impressa nella mente del protagonista Jamal.

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Inoltre, è stata usata anche per riprendere alcuni inserti come quello all’inizio del film che mostra un bambino che ruba una bici e, infine, anche per filmare l’arrivo di Latika in mezzo alla gente per assistere, finalmente libera, alla puntata in cui gioca il suo amato Jamal. La troupe usa anche quella che chiama una “CanonCam”, che è, precisamente, una macchina fotografica Canon con cui è possibile scattare a dodici fotogrammi al secondo. Una particolare menzione va alla piccola cinepresa 2K digital della Silicon Imaging, la SI-2K Mini, di cui la parte che contiene il sensore d’immagine 2 / 3” CMOS e l’obiettivo a supporto della lente può essere staccata dal resto della camera. E’ stata usata in un modo tra il palmare e la Steadicam, mediante un giroscopio. Ha un contenitore di lente di montaggio dove sono state inserite lenti di vario tipo, tra cui un set di lenti LINOSc, che sono state usate, in particolare, quando gli oggetti erano molto vicini per migliorare la sensazione di nitidezza, qualità e profondità degli stessi.

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Il Sol Levante nel cuore di Roma: il giardino e l’arte dell’Istituto Giapponese di Cultura

di Alessia Ambrosi

Foto di: Alessia Ambrosi, Antonella Simonelli, Anna Ranucci, Corrado Seller, Fabio Faltelli, Lucio Baldelli, Sergio d’Alessandro.

Iniziamo oggi, con un piccolo tesoro d’Oriente racchiuso nella Capitale d’Italia, una nuova rubrica dedicata alle uscite fotografiche esperenziate dai soci del circolo; in piccoli gruppi oppure al completo. Parliamo del giardino dell’Istituto Giapponese di Cultura, sito in via Antonio Gramsci, 74.

Si tratta del primo giardino realizzato in Italia da un architetto giapponese (Ken Nakajima, responsabile anche del progetto per l’area giapponese presso l’Orto Botanico di Roma, sito nel cuore del quartiere romano di Trastevere), e presenta tutti gli elementi essenziali e tradizionali del giardino di stile sen’en (giardino con laghetto).

Il laghetto, la cascata, le rocce, le piccole isole, il ponticello e la lampada di pietra, tôrô… dalla veranda (tsuridono) che si protrae sul laghetto è possibile osservare tutto il fascino di un tipico quadro orientale, dove la quiete e la delicatezza contribuiscono a creare un’atmosfera unica, allietata dai colori e dai profumi di varie specie floreali ed arboricole di cui il ciliegio, il glicine, l’iris ed il pino nano sono alcuni esempi.

Spostandosi poi all’interno dell’Istituto di Cultura Giapponese, è possibile intraprendere un viaggio simbolico che attraversa secoli di storia; per mezzo di mostre ed attività varie.

Alcuni soci hanno voluto condividere con voi la loro esperienza di visita, cercando di trasmettervi un po’ dell’atmosfera orientale che ha reso celebre questa piccola perla d’Oriente.

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sources: http://www.jfroma.it/

Contest di maggio: “La piazza”- le foto più votate

Per il Contest di maggio le foto più votate sono state quelle di Lillo Fazzari,  socio del Circolo fotografico ed Anna Maria Gabellini, non socia.

Le altre foto:

Elisabetta Manni                                                                                       Fabio Faltelli

Lucilla Silvani                                                                                           Lucio Baldelli

Erica Cremenich                                                                                      Anna Ranucci

Michela Poggipollini                                                                            Aldo Carumani

Antonietta Magda Laini                                                                               Sergio D’Alessandro

Simonetta Orsini                                                                               M.Rosaria Marini

A breve verrà data comunicazione del prossimo Contest.