Santa Maria della Pietà di Pino Giovine

 

di Pino Giovine

 

Il Manicomio Provinciale di Santa Maria della Pietà, venne inaugurato nel 1914 dal Re Vittorio Emanuele III. Fu concepito con lo spirito del manicomio-villaggio comprendendo 41 edifici collegati tra loro da una rete stradale di circa 7 km. ed immersi in un rigoglioso parco di 130 ettari di piante ad alto fusto. Di questi, ben 24 padiglioni furono destinati ai degenti detenendo per tanti anni il triste primato di manicomio più grande d’Europa con oltre 1000 posti letto che negli anni a seguire si ampliarono a 2600.

                                                      Manicomio provinciale

All’epoca la legge prevedeva il ricovero delle persone sulla base di un certificato attestante uno stato di pericolosità per sé o per gli altri o per atteggiamenti di pubblico scandalo. Ogni padiglione era una realtà a se stante: la ripartizione dei malati non veniva fatta in base alle patologie psichiatriche dei malati stessi, ma esclusivamente in merito al comportamento che questi manifestavano. 

Erano diffusi tra i pazienti l’inattività delirante e l’abbandono con la conseguente regressione dei ricoverati che sviluppavano atteggiamenti violenti. Alcuni pazienti  denominati “malatini” per le loro caratteristiche tranquille e servizievoli, godevano di maggiori libertà: aiutavano gli infermieri nella gestione dei degenti più impegnativi o venivano loro affidati dei lavori retribuiti all’interno la struttura stessa. Per loro e per quelli con esperienze di lavoro agricolo fu organizzato un podere con annesso stabilimento zootecnico per vaccine e suini. Qualcuno fu occupato nelle officine presenti all’interno del comprensorio create nell’ottica dell’ergoterapia: la falegnameria coi fabbri, la tipografia, la legatoria e la materasseria.

La quasi autonomia della struttura era garantita dalla centrale termica, dalla cucina con la dispensa, una sala operatoria, la chiesetta e gli alloggi delle suore. Esisteva un impianto per la depurazione biologica delle acque di rifiuto capace di smaltire quasi 100 metri cubi l’ora.

La vita dei degenti era scandita dai pasti e dalle rigide regole interne. Solo occasionalmente era consentito loro di uscire nel parco per passeggiare. Alle pesanti sedazioni ed alle fasce di contenzione, nel 1938 fu avviata in maniera massiccia la pratica dell’elettroshock che fu applicata diffusamente per tanti anni provocando effetti devastanti sui degenti.

Quando nel 1978 la legge Basaglia impose la chiusura dei manicomi, vi erano ricoverati ancora 1076 persone. Con imperdonabile ritardo delle Istituzioni, solo nel 1999 l’ospedale venne definitivamente chiuso. La legge Basaglia fece dell’Italia il primo ed unico paese al mondo che abolì i manicomi.

Oggi, una parte degli edifici è utilizzato da presidi sanitari in declino e da associazioni di volontariato ed assistenza sociale e la restante parte é abbandonata e fatiscente a causa dei soffitti crollati e delle finestre aperte.

L’immenso parco si è trasformato invece in uno spazio dedicato ai cittadini, un luogo dove comunque poter fare jogging o lunghe passeggiate lungo i sentieri in un labirinto fatto di viali alberati e padiglioni abbandonati.

La memoria storica dei luoghi resta comunque vivida perché custodita nei musei e nelle opere di street-art, rintracciabili sui padiglioni e sparsi all’interno del parco, un vero museo a cielo aperto, un esempio positivo di riqualificazione artistica e culturale di un luogo dimenticato dalle istituzioni.

Al Padiglione 6, dal 2000, anno di chiusura dell’intera struttura, è attivo l’emozionante “Museo Laboratorio della Mente”, al cui interno viene offerto un itinerario immersivo e narrativo che ripercorre la storia dell’Ex Ospedale Psichiatrico di Santa Maria della Pietà.

La meraviglia del bello di Michela Poggipollini

di Michela Poggipollini

Roma, la mia città, è ricchissima di opere d’arte nei palazzi, nelle gallerie, nei musei ed in altri luoghi ancora che io ho iniziato  a scoprire da quando, studentessa di Architettura frequentavo  le lezioni di storia dell’arte.

Negli anni successivi cominciai ad appassionarmi anche alla fotografia ed andavo in quei luoghi d’arte  come una turista che riporta a casa i ricordi e le emozioni del proprio viaggio.

Presto mi domandai perché riprendere le opere d’arte dal momento che avevo la possibilità di poter tornare a godere degli originali ogni volta che volevo e sfogliare libri le cui immagini erano senz’altro migliori e più ricche di quelle che potevo realizzare io.

Girando per i musei mi accorsi allora che era molto più interessante cogliere le emozioni del visitatore di fronte alle opere d’arte, la sua meraviglia se non addirittura l’estasi per il bello. Tanto era la concentrazione dei visitatori che non si accorgevano di essere ripresi da me, il più delle volte molto da vicino.

Anni dopo, mi accorsi che quello che stavo facendo corrispondeva alla visione che Roberto Cotroneo suggerisce nel suo libro Genius Loci e che è riassunta nel testo presentato come sottotitolo della sua opera:

le sale di un museo d’arte  prevedono un pubblico che guarda le opere ma non un pubblico che osserva un pubblico, eppure tra le prime cose di cui ho dovuto prendere atto, che ha dato origine a questo lavoro è che nel teatro dell’arte la scena non è quella dell’opera ma del pubblico.”

Le immagine presentate sono state riprese nella Galleria Borghese, nella Villa Farnesina e nel Palazzo Altemps.

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24 febbraio : Inaugurazione della mostra collettiva Gas – O – Metro

A Roma, solo il quartiere Ostiense è esempio di come un’area fortemente industriale possa virare verso un tipo di economia di tipo post-industriale.

Divenuta nel 1873 capitale d’Italia, i Piani Regolatori dell’epoca individuarono in Ostiense il futuro polo industriale romano.   All’epoca il Tevere era navigabile e con la ferrovia ed il nuovo ponte di ferro girevole  divennero fondamentali allo sviluppo delle industrie.   Il processo subì una repentina accelerazione circa trent’anni più avanti, ad inizio 900, col sindaco Nathan sotto il cui governo si realizzarono il Porto Fluviale, i Magazzini Generali, lo stabilimento del Gas (oggi Italgas) col Gazometro, la Centrale Termoelettrica Montemartini, i Mercati Generali e il Consorzio Agrario.  L’esistente fabbrica della Mira Lanza ed i Molini Biondi furono ampliati.

Intanto, negli anni ’50 iniziò a svilupparsi il quartiere Marconi in concomitanza della costruzione del ponte sul Tevere che facilitò l’espansione edilizia verso l’EUR ed il litorale.   In quegli anni erano ancora vivide, nel popolo, le gesta eroiche delle bande partigiane e, qualche anno più tardi, il quartiere acquistò nuova notorietà grazie al suo simbolo più noto, il Gazometro, che si innalzò dalla realtà faticosa della vita quotidiana di operai ed artigiani per apparire, sotto inedite vesti, nei racconti inquieti e soprattutto nella cinematografia di un allora emergente regista, Pier Paolo Pasolini, tra l’altro, frequentatore abituale delle taverne del quartiere.  Ormai inutilizzate da molto tempo, le vecchie strutture e gli imponenti opifici giacciono inoperosi, trovando però una nuova identità in quella costituente il nucleo centrale dell’“archeologia industriale” romana.

Tra essi, la Centrale Montemartini è stata sottratta all’incuria e all’abbandono totale. È un ammirevole esempio di riconversione in museo di un ex edificio industriale.   Il primo impianto pubblico per la produzione di energia elettrica oggi è il secondo polo espositivo dei Musei Capitolini.   Nei suoi rinnovati interni arredati in stile Liberty, tra motori, caldaie e turbine dell’epoca hanno trovato spazio e visibilità una considerevole quantità di sculture classiche, ritrovate durante gli scavi eseguiti a Roma a cavallo dell’800 e del ‘900.

Anche l’imponente sagoma del Gazometro, il più famoso simbolo dell’archeologia industriale romana, formato da una complessa struttura reticolare in ferro alta circa 90 metri, è visibilmente segnata dal tempo e mostra avanzati segni di decadimento.  Costruito nel 1937, è inoperoso ed inutilizzato da quasi mezzo secolo ed è parte caratterizzante, assieme ad altri elementi monumentali romani, dell’identità urbana e paesaggistica della capitale.

Gli ex Mercati Generali occupano una vastissima area che, da oltre un decennio, attende di essere ristrutturata per essere consegnata a circa 5000 studenti, una sorta di “cittadella” dei ragazzi.   Erano previste strutture ricettive come biblioteca, mediateca, refettorio, palestra e spazi multiuso.  Ad oggi, inutili conflitti d’interesse e pastoie amministrative ne bloccano l’attuazione, rimandando il tutto a data da destinarsi.

L’Italgas o ex Officina di San Paolo, che giace su una vasta area contenente i magazzini del carbone insieme ai forni ed altre attrezzature per il trattamento del gas, è stata semi-distrutta da un bombardamento aereo nel 1944. La successiva e progressiva metanizzazione della città ne ha rallentato la ricostruzione che, di fatto, fu poi abbandonata del tutto.

Sull’altra sponda del Tevere, di fronte al Gazometro, c’è quel che resta dell’Ex Mira Lanza fondata nel 1899 per la lavorazione degli scarti del vicino Mattatoio. Dopo qualche tempo, la soc. Candele Steariche di Mira la rilevò tutta e, con qualche ampliamento, la trasformò nel famoso saponificio, produttivo fino al 1957.   Nel 2000 il Comune pensò ad un progetto per la sua riqualificazione ma poi soltanto un terzo della proposta fu attuata, realizzando il Teatro India.  Negli anni seguenti, la ex Mira Lanza fu occupata e ci vissero, più o meno stabilmente, centinaia di disperati ed emarginati, fino all’incendio del 2014, che si lasciò dietro scheletri di strutture annerite.  Nel 2016, l’intervento dello street-artist parigino Seth riesce, tra montagne di rifiuti e travi carbonizzate, a far rifiorire la speranza di un futuro migliore per i miseri ruderi. S’intitola “Range ta chambre” (riordina la tua camera), la serie dei murales dipinti sui muri scrostati del gigante fatiscente.   Ciò rese possibile la riqualificazione di questo pezzo della periferia urbana romana, che diede vita e speranza ad un nuovo ed innovativo museo all’aperto, la cui gestione venne affidata, provocatoriamente, ad un nomade ed alla sua famiglia che già vivevano all’interno della ex fabbrica.

Gli scatti di questa mostra fotografica nascono passeggiando in lungo e in largo per il quartiere Ostiense, unico nel suo genere, sovrastato dall’imponente mole del Gasometro, ma anche da quella della monumentale Piramide Cestia e dell’eccezionale Basilica di San Paolo fuori le mura, patrimonio Unesco.  Ma c’è dell’altro, molto altro da scoprire.

Anche i dettagli più piccoli, ma non per questo meno caratterizzanti, hanno un loro fascino particolare nel lasciarsi scoprire, come gli sfavillanti e colorati murales oppure, seguendo il corso del Tevere, i moderni residence ed i lussuosi loft che sorgono lungo le sponde non distanti da aree sottoposte al degrado, sociale ed ambientale, dove è possibile percepire fortemente un senso di vago e indefinito abbandono. Restano comunque luoghi dal sapore antico, disseminati di mastodontiche carcasse industriali fatiscenti, fatte di mattoni e acciaio, frutti del sudore e della fatica delle schiere di zelanti lavoratori che popolavano numerosi, non molto tempo fa, questi luoghi.   

Con lentezza, il quartiere si mostra e si svela globalmente ai nostri occhi nella sua complessità urbana, architettonica, multiforme e multicolore, vissuto da un’umanità diversa e variegata, che vuole mantenere vivo il ricordo di memorie e dolorose fatiche.   Camminando per il quartiere, stupisce sempre incontrare moderne infrastrutture come il bianco reticolo metallico del Ponte Settimia Spizzichini e le varie sedi distaccate dell’Università Roma 3, la linea della Metropolitana affiancata a binari e mezzi ferroviari ormai in disuso, come quelli del Museo del Trasporto.

Nuove attività commerciali sorgono accanto a vecchie e polverose botteghe mentre ristoranti oriental fusion, locali notturni e pub, fanno parte di diritto della più sfrenata movida notturna romana.   Impossibile non immortalare gli scorci ricchi di contrasti, attraversati dai passi di una moltitudine di genti che risveglia le zone antiche, animandone al contempo quelle moderne di un quartiere che forse ha deciso, dalle sue ceneri, di voler risorgere ancora una volta e cambiare, sospeso tra il suo passato e il suo futuro.  Noi del Circolo PhotoUp, attraverso le nostre immagini, abbiamo cercato di testimoniare questo, raccogliendo ed illustrando la poliedricità di questo quartiere, espressa attraverso le molteplici sfaccettature che, da sempre, lo caratterizzano, penetrando nei suoi significati profondi, in quello che ha da dire e ci vuole raccontare.   Abbiamo camminato in lungo e in largo per il quartiere, certamente, ma non è bastato, l’abbiamo dovuto “sentire”, l’abbiamo dovuto “vivere”, l’abbiamo dovuto fare nostro, ognuno con il proprio stile diverso e il proprio diverso modo di interpretarlo.

Testo a cura di Erica Cremenich e Pino Giovine

Le foto esposte in questa mostra sono di:

Alessia Ambrosi – Andrea Alessandrini – Anna Fadda – Anna Ranucci – Antonella Simonelli – Elisabetta Manni – Erica Cremenich – Franco Brilli – Lillo Fazzari – Lucilla Silvani – Lucio Baldelli – Magda Laini – Maria Elena Ania – Maria Rosaria Marino – Maurizio De Angelis – Michela Poggipollini – Mauro Pierdicca –  Pino Giovine – Sergio d’Alessandro – Simonetta Orsini – Solmaz Nourinaeini – Stefano Marcovaldi

Link

La fotografia di Bill Pope nel film “Baby Driver Il genio della fuga”

di Antonietta Magda Laini

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Film del 2017 –  Regno Unito – USA

Direttore della fotografia lo statunitense Bill Pope. Sceneggiato e diretto dal britannico Edgard Wright. Interprete principale Ansel Elgort

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Musical senza la struttura del musical, come una commistione di generi, ispirato ai “gangster movies degli anni 30” quasi tecnicamente perfetto con una direzione della fotografia che cura e accompagna con precisione ogni singola immagine.

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Si tratta di cinema artigianale e, nel contempo, spettacolare di alto livello, con ottimi primi piani e un’efficace fotografia di interni .

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Ansel Elgort;Lily James

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E’ la musica che scandisce il tempo del film e stabilisce le inquadrature creando un punto di forza nel rapporto fra sé stessa e le immagini: un’esplosione di note pop e rock (Simon e Garfunkel, Queen, Beach Boys, The Jon Spencer Blues Explosion con il brano “Bellbottoms”, Commodores, Jonathan Richman, Barry White e tanti altri).

Il protagonista soffre di una forma di acufene causata da un incidente avuto da piccolo e, per contrastarla, utilizza cuffie che non toglie mai.

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Baby è un asso del volante (guida veloce e spericolata) al soldo di un boss che per sanare un debito  lo costringe a fare da autista nelle rapine.

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La musica, quindi, assecondando la successione delle immagini, detta il ritmo dei suoi pensieri e delle sue azioni, gli permette di controllare il mondo esterno, rappresentando l’unica alternativa ad una realtà che non saprebbe come sostenere.

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Lo “stato d’animo” del film viene offerto da un piano sequenza iniziale che segue il personaggio di Baby dalla strada al quartier generale del suo capo: una lunga ripresa tecnicamente perfetta e inquadrature d’effetto che introducono nel mondo del protagonista.

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Gran parte delle soluzioni dovute alle inquadrature e al montaggio seguono la costruzione musicale dei brani, favorendo la loro cadenza armoniosa: la musica diviene, così, non solo commento ma vera protagonista della catena di eventi.

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Troviamo sgommate, stridii, tagli sulla leva del cambio e sul volante, fughe contromano, turbinio di colori primari, assoli di chitarra e coreografie dove le vetture si trasformano in ballerine sull’asfalto. Movimenti studiati dagli stunt e fermati da una fotografia del dettaglio.

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Il film, come costruzione della struttura visiva, si presenta fluido, in movimento, con ritmo del linguaggio filmico che non utilizza soluzioni da post-produzione: effetti speciali pochi e molto cinema privo dell’immaginario del digitale.

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Bill Pope ha collaborato in diverse occasioni con il regista Sam Raimi  ed ha curato la fotografia della trilogia di Matrix dei fratelli Wachowski.

 

Source: wwwcomingsoon.it  http://www.mymovies.it http://www.cineforum.it

Palermo Capitale della Cultura 2018 di Maria Elena Ania

Palermo è stata scelta  capitale italiana della cultura 2018.

La Cattedrale- San Francesco di Paola

Una scelta condivisa da chi conoscendo il capoluogo siciliano ne ha visto riconosciuto l’innegabile patrimonio culturale.

La Cattedrale- Santa Rosalia patrona di Palermo

La storia millenaria e l’alternanze di dominazioni, dopo la sua fondazione ad opera dei Fenici con il nome di Zyz (fiore),  ha dato alla città un immenso patrimonio artistico monumentale.  Greci, romani, arabi bizantini, normanni, aragonesi, spagnoli, borboni   hanno lasciato tracce tangibili nella architettura, nella lingua, nella cucina.

La Cattredale- San Francesco di Paola 2

Palermo può essere considerata una città in cui convergono elementi apparentemente inconciliabili, ma proprio  questo la rende affascinante ed enigmatica. Votata alla multietnicità  ha saputo offrire riparo ed  integrazione  ai popoli che l’hanno eletta per dimorarci.

La Zisa interno

Il progetto culturale all’interno del quale si inserisce la candidatura a Capitale italiana della Cultura  2018 prevede anche la prestigiosa  biennale itinerante  di arte contemporanea Manifesta 12  che avrà come scenario Palermo e si intitolerà “Il Giardino Planetario. Coltivare la coesistenza” dal 16 giugno al 4 novembre.

La Zisa visto dalla Chiesa della Santissima Trinità

“Palermo – ha detto il ministro Franceschini- è di per sé una capitale nel cuore del Mediterraneo, che è riuscita a ritrovare  la propria centralità grazie alla cultura, al turismo, alla riqualificazione degli spazi urbani. Un’ offerta culturale di qualità,  quella di Manifesta 12, ha proseguito il ministro “unita alle iniziative per Palermo Capitale italiana della cultura 2018 e dell’ Anno  Europeo del Patrimonio, faranno di questa metropoli un centro vitale e attrattivo agli occhi del mondo.”

La Zisa- I diavoli

Il sindaco Leoluca Orlando ha ribadito come la città sia da sempre “capitale delle culture”, dunque non semplicemente europea, ma anche “mediorientale e mediterranea” tanto da consentirle di riceverne il riconoscimento dell’itinerario arabo-normanno dalla WHL dell’ Unesco.

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Visioni vicine di Anna Fadda

di Riccardo Guglielmin

E’ interessante e piacevole parlare con Anna Fadda. Si può scoprire, infatti, un’artista che vive la passione per la fotografia con serenità, umiltà e forte spirito di sperimentazione. Sicuramente i suoi studi giovanili al Liceo Artistico le hanno donato una sensibilità e una capacità di vedere il mondo con occhi più attenti. Vive l’interesse per la fotografia nella ricerca del senso delle cose e del mondo che la circonda.

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Le sue foto sono il frutto di un percorso interiore e intellettuale: la necessità di andare al di là della superficie la porta a individuare e a raccontare l’anima, i misteri e i segreti dei soggetti ripresi. La sua maturità si può leggere anche nel rapporto che ha con l’attrezzatura utilizzata: “Mi piace scattare anche con lo smartphone perché credo che riprodurre e raccontare la realtà sia, potenzialmente, alla portata di tutti. La vera fotografia è una questione di occhio, di cuore e di sensibilità. L’attrezzatura è importante ma non fondamentale!”

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Le foto sono piene della magia che solo la luce può creare: le ombre e i riflessi si trasformano nel sottile gioco del far vedere, di nascondere, di esaltare la materia. Ombre non come semplice e riduttivo gioco grafico, ma come elemento vitale di una ricerca continua dell’equilibrio. La realtà diventa il palcoscenico per dimostrare che il senso della vita si può trovare solo nella faticosa ricerca dell’armonia.

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La composizione diventa, quindi, un importante alleato per isolare il soggetto principale, per focalizzare l’attenzione su un particolare momento, su una nuova dimensione che, il più delle volte, sfugge agli occhi distratti delle persone. Nei paesaggi le lenti dell’obiettivo abbracciano il mondo, si perdono nei grandi spazi e nello stesso tempo ci introducono in nuove e profonde emozioni.

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La fotografia come un viaggio, il viaggio come ricerca della vita nella vita. Fadda ama esplorare il mondo con gli occhi, è normale, quindi, che abbia sperimentato anche la fotografia macro. Una sperimentazione che la porta ad avere una maggiore attenzione nei confronti dei dettagli e alla scoperta di dimensioni invisibili. Il suo occhio sa cogliere i colori della vita, il suo cuore sa leggere le sfumature di ogni momento che vive e respira con intensità.

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Le sue foto sono un’attenta tavolozza di armonie: “… i colori non possono essere messi a caso, tutto concorre all’equilibrio, anche il colore”.  Con il bianco e nero l’autrice riesce ad arrivare all’essenziale, esalta il messaggio, realizza immagini fuori dal tempo.

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Fadda, una vera fotografa perché si diverte con la fotografia, una vera artista perché ci regala emozioni.

Riccardo Guglielmin

Riccardo Guglielmin è giornalista, storico e critico della fotografia. Si occupa di fotogiornalismo e di fotografia sociale. Ha esposto in centinaia di mostre personali e collettive, in Italia e all’estero, ha partecipato a numerose conferenze e progetti europei, ha pubblicato migliaia di foto. Ha tenuto lezioni e corsi organizzati da Finetica (Pontificia Università Lateranense e Università Bocconi di Milano) e da altre università. E’ docente di Linguaggio della fotografia presso scuole e centri specializzati. Ha organizzato numerosi concorsi fotografici e  manifestazioni culturali a livello nazionale. Ha curato trasmissioni televisive e progetti multimediali. Ha ottenuto importanti premi e riconoscimenti a concorsi fotografici e di comunicazione.Tra le principali pubblicazioni: Lourdes – volti e anime (1995), Le stagioni della vita (1996), Il fotografo e il fisco (1998), La direzione della fotografia nel cinema (1999), Manuale di tecnica fotografica (2000), Fotografia e non vedenti (2001) Il cammino dell’uomo (2008).