di Elisabetta Manni
La notte del 24 giugno 1950 la Corea viveva la sua quotidianità, molti si allontanarono dalla loro casa per qualche giorno chi per lavoro, chi per andare a trovare parenti e amici ma nessuno si sarebbe mai aspettato che non vi avrebbero mai più fatto ritorno; all’alba del 25 giugno una serie di colpi d’artiglieria fra la Corea del Sud e la Corea del Nord segnò l’inizio della Guerra.
Gli attacchi proseguirono violentissimi ma ciò che sappiamo con certezza è che fu soprattutto un conflitto politico infatti le poche testimonianze che ci sono pervenute sono confuse e poco affidabili: gente indottrinata, accuse reciproche e false prove; in seguito, il conflitto si affievolì sulla linea di demarcazione che divideva in due il paese, il cosiddetto 38° parallelo, fino ad arrivare ai giorni nostri con di fatto due Coree ancora divise ma con la speranza di una futura riunificazione.

Werner Bischof riuscì a immortale quella guerra fratricida a poco meno di un anno da quel 25 giugno.
Con già alle spalle il progetto fotografico del dopoguerra in Europa, ben presto fu invitato a unirsi all’agenzia Magnum. Eppure, per Bischof quel progetto fotografico fu solo un periodo di transizione dai suoi studi artistici, lui infatti iniziò a studiare arte per diventare un pittore ma intraprese la carriera fotografica in uno studio creando inizialmente immagini da forme naturali e astratte. Tuttavia, dopo l’esperienza in Europa iniziò ad impegnarsi ad utilizzare la fotografia come strumento di cambiamento sociale; si unì ufficialmente all’agenzia nel 1949 e, allontanandosi sempre di più dalle sue radici artistiche, continuò ad adottare l’approccio fotogiornalistico, tant’è che negli anni ’51-’52 si dedicò alla documentazione delle questioni politiche e sociali in Asia.

La sua prima tappa fu in India, dove lavorò a numerosi progetti tra cui “Famine story”. In seguito, si spostò nella penisola coreana per raccontare e denunciare le sofferenze dei civili coinvolti nella guerra.
La mattina del 5 luglio 1951 si imbarcò verso Seoul e si unì ad altri dieci corrispondenti provenienti da tutto il mondo. «Volevo vedere con i miei occhi dove avrebbe portato questa guerra …… è importante mostrare il lato umano e civile della storia. Quei coreani cacciati dalle loro case» scrisse in una lettera indirizzata a sua moglie, Rosellina Bischof.

Nonostante tutto, il rapporto tra Bischof e la fotografia rimase complesso, era in perenne lotta con l’essere un fotogiornalista e su quello che lui considerava giornalismo sensazionalistico e incurante. Tuttavia, ciò che lo spingeva ad andare avanti era il desiderio di andare oltre le immagini scioccanti delle prime pagine dei giornali; così come aveva fatto in India e nell’Europa del dopoguerra, Bischof produsse una commovente documentazione di coloro che si trovavano dietro al fronte.

Secondo Ernst Haas, uno dei primi colleghi nella Magnum: «Le sue fotografie avevano una tendenza verso l’assoluto – una combinazione di bellezza e verità: una pietra è diventata un mondo, un bambino era tutto un bambino, una guerra era tutta una guerra». Dopo la devastata Seoul, Bischof si recò a Sanyang-ri, un piccolo villaggio situato in un’area ormai diventata terra di nessuno. «Non un solo nativo coreano è tollerato in questa zona di guerra, non una donna, non un bambino…solo soldati» osservò Bischof nel rapporto di Magnum Photos.
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