Bisogna infine riconoscerlo, una buona volta: io non so fotografare.
In realtà ne avevo avuto il sospetto circa cinquanta anni fa, quando con la mia prima reflex, fresco di manuali di fotografia, entusiasmi studenteschi e pulsione antropologica di documentare l’evoluzione della società che mi circondava – sulle orme di Claude Lèvi-Strauss, proprio io che ho sempre fatto studi tecnico-scientifici, decisi di fotografare le modifiche che subivano le scritte che apparivano sui muri di Roma in quel periodo tumultuoso ed appassionato; era mia intenzione farne una pubblicazione che sarebbe rimasta a maggior gloria mia e, modestamente, della città. Ricordo di aver collezionato circa trecento immagini nell’arco di quasi un anno e mezzo e questo dato non deve impressionare tanto per il suo valore documentale quanto, piuttosto, per il valore economico dell’impresa, visto il costo delle gloriose pellicole 36×24, degli acidi, della carta e dei macchinari, ancorché primitivi e di seconda mano, per lo sviluppo e stampa. Naturalmente, di tutte quelle foto solo una percentuale minima avrebbe avuto un voto di sufficienza ma, si sa, i grandi fotoreporter – specie quelli di guerra, mica stavano a badare tanto per il sottile alla tecnica quando si trattava di immortalare il momento storico e drammatico che gli si presentava davanti. Finì che, mentre meditavo sulla bontà delle foto e su quanto a lungo dovesse durare la mia indagine, uscì una altra pubblicazione ben più interessante, bella e ben fatta di quanto io sarei mai stato capace.
Le frustrazioni fortificano ed infatti mi dedicai al ritratto in studio o meglio a casa dei miei genitori che allora ancora si ostinavano ad ospitarmi. Dopo aver girato quasi tutti gli sfasciacarrozze – in italiano autodemolitori – di Roma, mi munii di quattro riflettori fatti con le parabole dei fari di altrettante automobili demolite e, con altra attrezzatura di accatto, mi misi pervicacemente a fotografare mia sorella e tutti gli altri parenti che mi capitavano a tiro. Ne risultò una bella serie di volti scocciatissimi e male illuminati che con la mia modella di elezione, Vera Gottliebe Anna von Lehndorff-Steinort – in arte Veruschka, non avevano molto in comune; tutta colpa di quei soggetti totalmente non all’altezza.
Gli anni passavano, le mode pure, poi giunsero le figlie e conquistati due modelle d’eccezione: nel senso che erano eccezionali nel girarsi dall’altra parte quando, dopo lunghi appostamenti, decidevo che era finalmente il momento propizio per scattare, o quando un loro subitaneo movimento si opponeva ai tentativi di fermare in una posa l’attimo fuggente; lo so, gli ossimori sono sempre stati la mia condanna.
E venne l’era del digitale. A parte il fatto che inizialmente non ne capii compiutamente la definizione dal momento che, tanto con la pellicola quanto con la scheda di memoria, si trattava di pigiare comunque col dito il tasto di scatto, mi sentii un leone: io che dal lontano 1976 avevo smanettato con i primi pc, io che avevo capito molte cose – non tutte, per carità – del FORTRAN IV, del DOS ma non, aimè, del comando format, io che ero reduce dalle schede ad ottantadue colonne del centro di calcolo dell’Università, ti pare che non avrei saputo dominare una macchinetta come la mia Nikon contrassegnata con un certo numero di zeri? Ebbene no, non ho saputo: mi dicevo che nella foto quello che conta è l’anima, la storia che vuoi raccontare, il focus che hai individuato, ti prende e non ti lascia perché solo tu sei in grado di rappresentare le emozioni e le passioni, il dolore e la gioia, la vera fanciullezza e la vera vecchiaia, eccetera, eccetera. Mi accorgo solo ora che una camera con 1,78 in dieci alla ottava funzioni combinatorie, che forse nemmeno Johann Carl Friedrich Gauss con i suoi sviluppi in serie sarebbe riuscito ad affrontare, ha dietro, per dirla pomposamente alla Bertolt Brecht, l’uomo, con il suo fatidico dito per scattare. Altro che bilanciamenti, ISO, priorità, focali, calori e colori, e via dicendo: o sei ispirato o non lo sei ed io, modestamente, non lo fui. Sono giorni che, complice la mia connaturata insonnia, mi sveglio nel cuore della notte contando da quanti giorni non tocco la mia fotocamera e non mi passa per la mente nemmeno la più piccola idea di cosa potrei immortalare; la vena si è disseccata e quanto più vedo gli amici intorno a me mostrare impareggiabile perfezione stilistica, ineguagliabili vette tecniche, segni geometrici di irraggiungibile eleganza, tanto più mi sembra, nella mia pochezza tecnica, di dover contrapporre pàthos di intensità sempre più alta, sempre più irraggiungibile. Per carità, non sogno Eros e Thanatos – non ne sarei comunque all’altezza – né cerco l’uomo come faceva Diogene di Sinope, ma vi prego, prestatemi un’idea, una piccola misera idea che mi ridia fiducia e mi liberi dall’incubo di quelle prime trecento foto disperse nel vento e che il vento non riporterà.
Ho ancora cinquanta anni davanti.