“Nenet children” di Eugenio Fieni – commento di Enrico Maddalena

Testo di Enrico Maddalena

Foto “Nenet children” di Eugenio Fieni

Nel numero di ottobre di Fotoit, nella rubrica  Singolarmente Fotografia, è stata pubblicata una foto di Eugenio Fieni commentata da Enrico Maddalena, socio del circolo “Amici dell’immagine” di Magliano de’ Marsi e docente FIAF.

Il più ampio commento descrive le difficoltà di un lettore di fotografia  di fronte ad un’ immagine, in particolare quando lo spazio convenuto è limitato a 800/900 battute.

Sono uno dei collaboratori della rivista Fotoit della FIAF. E così, di tanto in tanto mi arrivano dei portfoli o delle foto singole da commentare: “Enrico, hai voglia di commentare questa foto? Puoi? Ti ricordo che il testo nella rubrica “Singolarmente fotografia”, al contrario delle altre rubriche, deve mantenersi sugli 800 – 900 caratteri spazi compresi”. “Ma certamente!” è la risposta.

Intanto guardo la foto e mi chiedo: e che scrivo? E’ un ritratto, un primo piano con pochi elementi. Come arrivo a 800 caratteri? Mi metto alla tastiera e immancabilmente, iniziando a guardare l’immagine, mi rendo conto che non mi basterebbero dieci pagine. Ogni volta è così: imbarazzo all’inizio, ma poi le dita volano da sole sulla tastiera, così che ogni volta mi ritrovo a rispondere fiducioso: “Ma certamente!”

È solo un primo piano di un bambino o una bambina, sotto una folta pelliccia. Lo sfondo sfuocato e limitato dalla lunga focale mi dà poche informazioni: neve e due tende. Assieme alla foto non mi arriva null’altro. So soltanto il nome dell’autore e il titolo, quasi sempre in inglese… mah, una scelta che non capirò mai visto che siamo fra italiani. Ma “Nenet” mi dà l’indicazione del popolo di appartenenza e del luogo. Scrivo due brevi righe in proposito, considerato che su una rivista di fotografia si deve parlare soprattutto dell’immagine. E l’immagine contiene numerose, infinite informazioni, semplice che voglia essere. Gli occhi a mandorla ci danno qualche informazione sull’etnia.

Ci sono molte cose che la fotografia non può registrare, come i rumori, i profumi, il freddo e il caldo. Ma in molti casi può farlo attraverso indizi. Il vento può essere evocato dalle erbe piegate e dai rami rivolti tutti da una parte. Qui la folta pelliccia che lascia libero solo l’ovale del volto, ci parla delle gelide temperature di quei luoghi. Di conseguenza noti anche le scelte del fotografo: le cromie sono sulle tinte calde, sui bruni e nemmeno nelle ombre del paesaggio c’è un cenno di azzurro. Una scelta che si spiega con l’intenzione del fotografo mirata tutta al ritratto. Il bimbo è in primo piano, al centro e occupa tutta l’inquadratura. Poi noti un’altra cosa che con alta probabilità nemmeno l’autore avrà notato. Sì, perché a differenza del disegno, dove tutto ciò che è sul foglio è solo e tutto quanto sei riuscito a vedere, la foto registra anche tutto ciò che all’atto dello scatto non avevi notato. Così mi appaiono chiare due diagonali che attraversano il quadro e che si incontrano al centro del viso. Due diagonali che iniziano in basso seguendo la linea delle spalle e si proseguono in alto attraverso i bordi delle tende. Due triangoli, anzi quattro che convergono al centro, nell’ovale del volto.

La scelta della pdc ridotta assieme alla ripresa ravvicinata è quella giusta quando a interessare non è l’ambiente ma la persona. E della persona l’animo, i sentimenti, perché diversamente si sarebbe scelta una figura intera.

Ma poi ti vengono in mente altre considerazioni, e pensi che inquadrare è frutto di una scelta e significa includere ma al tempo stesso escludere. E quindi pensi al campo e al fuori campo. E pensi a quel fuori campo che non è ai lati dell’inquadratura e non è nemmeno davanti, magari occultato da una tenda. Pensi al fuori campo che è dietro la fotocamera e che include il fotografo. E quando il soggetto guarda in macchina, lo evoca, lo rivela quel fuori campo (che in gergo cinematografico viene nominato “quarta parete”). Così che l’immagine rivela una relazione fra il bambino e il fotografo. E inizi a pensare a un altro fuori campo, quello temporale: cosa avrà detto il fotografo al bambino per porlo davanti alla fotocamera? E cosa dopo lo scatto? Gli avrà fatto una carezza? Gli avrà offerto una caramella? Il bimbo sarà corso dai genitori o si sarà attardato a guardarsi sul display? E osservi il suo sguardo serio e triste. Espressione del carattere o imbarazzo nei confronti dell’adulto che lo sta osservando attraverso il mirino della reflex?

Continuando a osservare la foto, noti altro. Noti che, in fondo, quel bambino sta guardando te ora. E ti accorgi che quello sguardo non ti fa più uno spettatore esterno, ma ti trascina dentro la foto, in un colloquio muto al di là dello spazio e del tempo.

Solo 800 – 900 battute spazi compresi? E come faccio?

Enrico Maddalena